La coerenza di Antonia Pozzi

Conferma dall’epistolario della poetessa tragicamente scomparsa nel 1938

“Spogliarmi di tutto il superfluo, dimenticare i volti ben rasi, le labbra dipinte, gli alberghi di lusso, rinunciare alle comodità di cui – grazie a Dio – non mi sono mai fatta delle schiavitù, andare dalla povera gente, imparare il dialetto, ricominciare.”

In questa lettera a Dino Formaggio, studente-operaio che parteciperà poi alla resistenza e diventerà docente universitario, la poetessa Antonia Pozzi (1912-1938) rivela altro che un amore, non ricambiato, verso un quasi coetaneo (Dino era di due anni più vecchio). Rivela i motivi profondi della sua anima, incapace di aderire integralmente alle ipotesi immanentistiche e materialistiche di alcune scuole di pensiero (ad esempio il circolo del docente di Estetica Antonio Banfi all’interno del quale si muovevano i due giovani) ma che nel contempo non sempre riusciva ad accettare la dimensione di un Dio-persona.

Ma vi è ancora altro, come ci rivela questo “Ti scrivo dal mio vecchio tavolo. Lettere di Antonia Pozzi, 1919-1938” (Ancora, 383 pagine) curato da Graziella Bernabò e Onorina Dino: i motivi esistenziali, non unicamente legati alle delusioni sentimentali, che, come scrive nella postfazione Tiziana Altea, portarono la scrittrice a sentirsi colpevole: “E’ erosa da un assillante senso di colpa per una sorta di peccato originale da cui doversi redimere”.

Questa colpa originaria è in parte costituita dal suo essere ragazza di buona famiglia (il papà era uno stimato avvocato, la mamma discendente di una famiglia di antica nobiltà): la sua acutissima sensibilità la portava a guardarsi intorno, a vedere la povertà e la miseria degli altri, e probabilmente a fare paragoni con i suoi impegni che invece di essere quelli del duro lavoro in fabbrica o della ricerca di un impiego per sfamare una famiglia, erano fatti di viaggi all’estero, partite a tennis o scalate in montagna.

E’ evidente che in una persona naturalmente sensibile e attenta all’altro si possa sviluppare un paradossale – in apparenza – senso di inferiorità e di colpa. Quello spogliarsi dagli orpelli alto-borghesi di cui Antonia scrive nella citazione all’inizio di questo articolo, è un segnale evidente che questo tarlo era davvero operante nella coscienza della giovane poetessa.

Le lettere qui riportate, alcune delle quali inedite, ci aiutano a ricostruire questa graduale erosione della volontà di reagire che aveva come concause anche elementi reali del suo vissuto, soprattutto la profonda ma sfortunata storia d’amore che la legò ad un suo professore di Latino e Greco, Antonio Cervi, osteggiata dal padre di Antonia, che minacciò perfino di sfidare l’uomo a duello.

La fine di questa storia, l’aver compreso che i due, padre e amato, cercavano di imporle una proiezione della loro immagine ideale della donna, e che quindi non l’accettavano per quello che realmente era, costituì un duro trauma per la sua fragile psiche. Fragile perché, come scrisse Remo Cantoni, un altro amico che Antonia si era illusa potesse diventare qualcosa di più per lei, in una lettera al padre dopo il suo suicidio, quell’ “ideale dono di sé la svuotava quasi e le lasciava nell’animo un abisso, che nessuno sapeva e forse avrebbe mai potuto colmare”.

La Antonia che emerge da queste lettere è in effetti una giovane donna con un carattere strutturato, e non è una contraddizione, perché questa strutturazione era talmente coesa che le era difficile separare la forma dai contenuti umani, ed era incapace di fingere. In questo modo si trovava però disarmata di fronte alle delusioni, alle cadute dei veli ipocriti, alla nuda realtà che non corrispondeva ai suoi sogni.

Antonia era talmente strutturata nel suo essere che le sue lettere lasciano trapelare la poetica, fatta di notazioni naturalistiche che si animano subito di vita, in una visione della realtà che oscilla tra una idea di Dio immanente e quasi panteistica e una percezione della divinità creatrice guida e voce interiore.

Lettere e poesie, la sua stessa vita, rivelano una rarissima coerenza che avvicinano Antonia Pozzi agli esiti più alti della poesia al femminile – e non solo – del nostro Novecento poetico.