Intensa e diretta, corposa quanto accessibile, la relazione di Stefano Zamagni. All’economista cattolico il vescovo Pompili ha affidato il primo intervento dell’incontro pastorale, dedicato a riflettere sulle sfide che attendono una Chiesa che voglia dire al mondo qualcosa di nuovo. Di nuovo e di significativo in termini di equità e sviluppo.
Già, lo sviluppo. La prima parola che Zamagni vuole mettere in evidenza nel chiarire i termini di cui si parla, visto che, parlando di economia, si tende oggi a confonderlo con crescita. «Sviluppo e crescita sono la stessa cosa? Ai miei allievi ricordo sempre che la parola “s-viluppo” significa “non viluppo”, e cioè capacità di superare quelle limitazioni che avvinghiano l’uomo. Perché solo l’uomo è capace di svilupparsi, gli altri esseri viventi semplicemente crescono». E parlare di sviluppo significa andare oltre la semplice crescita, se è vero che «anche l’Istat di una società valuta oggi non solo il PIL ma il ben-essere (che non è ben-avere!)». Sbagliatissimo, allora, è il primo avvertimento del professore, nel definire lo sviluppo di una società parlarne soltanto in termini di crescita: «questa è solo la prima delle tre dimensioni dello sviluppo, assieme a quella socio-relazionale e a quella spirituale. Una società si sviluppa solo se tiene in armonia queste tre dimensioni. Si può avere una società che cresce economicamente ma a discapito delle altre due dimensioni, dunque non si sviluppa».
Tre i verbi che definiscono l’uomo: avere, essere, amare «e tutte e tre contano!», ricorda Zamagni, che ci va giù diretto: «Sono tre dimensioni che devono procedere in modo armonioso. Non si può sacrificare sull’altare della crescita le altre due dimensioni, come purtroppo si tende a fare». E non risparmia un esempio pratico: «Se eliminassimo tutte le domeniche e tutte le festività aumenterebbe sì la crescita, ma a discapito della dimensione relazionale e spirituale», e allora che sviluppo sarebbe? Non certo quello sviluppo umano integrale che è il concetto base che ci sta a cuore.
E qui arriva il vero significato di lavoro. Se il concetto è sviluppo umano integrale, con lavoro non si può intendere solo il far soldi. «Partiamo dall’idea che il lavoro è un bisogno umano fondamentale. E in quanto tale è un diritto. Un’idea non scontata: un diritto può anche essere negato in alcune situazioni particolari di mancanza di libertà e democrazia, ma un bisogno no». Lavoro, nell’ottica cristiana, è il completare l’opera del Creatore: «Il nostro Dio ha creato il mondo, ma non lo ha finito. Ha avuto bisogno di riposarsi, perché ha affidato a noi il compito di portare a compimento l’opera delle sue mani». E perciò, «se riduco il lavoro solo a un’attività con cui mi procaccio il potere di acquisto, mi metto al di fuori del canovaccio della dottrina sociale cristiana. Il lavoro è fatica ma è anche gioia, perché compie l’opera creatrice di Dio».
Sono questi i concetti con cui occorre guardare a ciò di cui la società ha bisogno. E Zamagni lo dice chiaramente: ha bisogno di trasformazione. «Papa Francesco introduce la distinzione tra riforme e trasformazione e dice che abbiamo bisogno della seconda non delle prime». Lo fa capire con una metafora terra-terra: «se il ciclista mi mette una pezza alla bici bucata ma la camera d’aria è logora, non ha risolto il problema: ecco, mettere una pezza sono le riforme, cambiare la camera d’aria significa avere un progetto globale». Questo è quel che serve: «trasformare blocchi del nostro assetto istituzionale». E se un primo blocco, per il professore bolognese, è il comparto scolastico-universitario («inutile fare riforme a pezzi, non servono a niente, non sono risolutive, occorre cambiare il modo con cui concepiamo il processo educativo», essenziale è trasformare pure il sistema fiscale, per Zamagni oggi profondamente sbagliato: «il nostro sistema di tassazione è mirato a tassare i salari, il profitto e a liberare la rendita. Le tasse invece devono essere pagate di più da chi vive di rendita, perché non dà nessun contributo», come sottolinea il Papa con il suo “i soldi non si fanno con i soldi ma col lavoro”, ricordato pure prima dal vescovo Pompili. «Chi ottiene potere d’acquisto senza dare nessun contributo e senza merito (come chi gioca in borsa e non ha scrupoli) è oggi tassato pochissimo, mentre facciamo pagare tasse a chi è produttivo anziché a chi è improduttivo», cosa profondamente ingiusta.
È con occhi nuovi che occorre guardare al lavoro, superando, dice Zamagni, «la concezione “petrolifera” del lavoro: gli italiani pensano al lavoro come fosse una miniera di lavoro! Come se da qualche parte ci fosse una miniera in cui cercare posti di lavoro. Scherziamo? Il lavoro si crea, non si cerca!».
C’è bisogno di economia più che di finanza. Anzi, la Chiesa mette in guardia da una certa spregiudicatezza in campo finanziario, come spiega bene un recente documento della Congregazione per la Dottrina della fede passato, denuncia il professore, tra il silenzio completamente indifferente dei grandi media. L’idea base «è il superamento del modello finanziario capitalista che sta distruggendo l’economia di mercato, l’economia reale: la finanza non produce niente, trasferisce dalle tasche di Tizio alle tasche di Caio». Pericolosa quella tesi della doppia moralità per cu «l’etica del mondo della finanza non deve essere la stessa degli altri ambiti, ma è l’etica del gioco del poker, che deve puntare a indurre in errore l’avversario: nella finanza non bisogna mai dire la verità, bisogna ingannare il risparmiatore ingenuo. Questa tesi è passata nei libri, oggetto di insegnamento in tutte le università, qualche volta anche università cattoliche (è uno scandalo: il Papa lo sa e c’è da attendersi che prenderà dei provvedimenti!)… I tanti casi che hanno visto scoppiare lo scandalo, da Mps in giù, non avvengono perché c’è qualche mela marcia, la colpa non è di qualche mela marcia, ma del sistema, dell’assetto organizzativo! Se vogliamo essere coerenti dobbiamo cambiare le regole del gioco. La teoria della doppia moralità non è accettabile!».
Come cattolici non dobbiamo aver paura di dire queste cose, visto che «i concetti li abbiamo inventato noi! Solo perché altri usano strategie di marketing che fanno credere diversamente… Le banche vengono dai monti di pietà dei francescani. Furono creati per liberare da morte certa chi era oppresso dall’usura».
Portare questa impostazione anche nel discorso dell’ambiente significa far propria la lezione della Laudato si’ di papa Francesco: il principio «secondo cui questione sociale e questione ambientale devono procedere di pari passo». Anche per l’ambiente c’è bisogno di farsi guidare da princìpi che sono quelli della responsabilità del bene comune. «Perché non c’è tra i tanti organismi internazionali un’organizzazione mondiale dell’ambiente? Accordi come quelli di Parigi diventano inutili, scritti su una tavola di ghiaccio. Se non c’è un’organizzazione mondiale forte non serve a niente!».
Anche per la questione della cura del creato, va riscoperto, secondo Zamagni, «il principio di reciprocità, al cento per cento nato dentro l’alveo della cultura cristiana. Molti hanno il principio dello scambio, della elargizione (filantropia), ma la reciprocità è altra cosa: è un dare senza perdere e prendere senza togliere! Che è poi la traduzione in pratica del principio della fraternità. Quello di solidarietà è legato ai movimenti socialisti. Ma la fraternità è quello cristiano. La solidarietà può essere anonima, la fraternità richiede di guardare in faccia il fratello. Tendere verso una società fraterna, capace di mettere in pratica il principio di reciprocità».
La conclusione la prende in prestito dal poeta indiano Tagore: “Quando il sole tramonta, non piangere. Perché le lacrime ti impedirebbero di vedere le stelle”. «Aveva ragione: viviamo in una fase di transizione, ma non dobbiamo piangere. Anche in questi tempi duri, se non piangiamo, possiamo vedere le stelle».