Crisi industriale e cultura di città

L’ultima brutta notizia è stata quella delle prime lettere di licenziamento arrivate nelle mani dei lavoratori della Ritel. Poi la Regione ci ha messo una pezza, ma il rimedio non risolve certo la situazione. Il dissolvimento del tessuto industriale reatino è un fatto a cui non ci dobbiamo certo rassegnare, ma sarebbe ora di farci i conti in modo serio.

La condizione è così grave, e coinvolge in modo così profondo la condizione materiale della città, da richiedere ogni sforzo per essere compresa e superata. Di conseguenza sarebbe necessaria anche la ricognizione delle cause che hanno determinato il quadro attuale.

In questa direzione, di solito, le indagini finiscono col dare la colpa alle conseguenze della globalizzazione dei capitali e delle imprese. Le logiche delle multinazionali sono ormai completamente svincolate dai territori di riferimento. Ad essere decisivi sono soprattutto i bassi salari e le legislazioni permissive dei paesi più o meno “emergenti”.

L’analisi sembra corretta, ma ha il difetto di essere anche troppo generica. In fondo ha un po’ il retrogusto delle frasi di circostanza che si tirano fuori ai funerali. Se non vogliamo darci per spacciati, allora, dobbiamo sforzarci di capire la crisi anche nei suoi caratteri locali più particolari.

Il nucleo industriale è stato certamente una risorsa importante per l’emancipazione economica e anche culturale dei reatini. E anche noi siamo convinti che senza industria non si va lontano. Ma la città aveva una capacità economica, compreso qualche impianto industriale, già prima della “colonizzazione” americana e francese. E al contrario di oggi, quell’economia era in qualche modo connessa con le produzioni del luogo.

Lo zuccherificio ne è un esempio. A Rieti c’era il ciclo completo: si coltivavano le barbabietole e si provvedeva alla loro trasformazione. Ma non mancava neppure un dignitoso artigianato cittadino messo al servizio dell’agricoltura. Non sempre erano rose e fiori, ma fino ad allora queste strategie avevano permesso la sopravvivenza della città ed anche qualche momento di splendore.

Ovviamente sono esperienze superate, che difficilmente si possono recuperare. Però si potrebbe provare a riproporre quel tipo di legame, quel patto tra economia e territorio. Ovviamente interpretando i bisogni e le opportunità che caratterizzano il nostro tempo.

La gravità del momento ci porta a guardare con favore qualsiasi tipo di salvataggio dall’alto, ma per garantirci una qualche indipendenza futura, occorrerebbe pensare ad una imprenditorialità costruita su risorse e progetti locali.

Di sicuro è un problema complesso, ma proprio per questo varrebbe la pena discuterne, magari con le associazioni di categoria. E forse con l’occasione potremmo pure riuscire a capire perché ad un certo punto si è creato un baratro tra l’artigianato e l’industria, e perché questo vuoto non è stato mai riempito dal rinnovarsi della “cultura cittadina”.

Una cultura del prodotto che provenga da una cultura della comunità, infatti, sarebbe un tema serio da affrontare. Forse suona un po’ “olivettiano”, ma la nota di fondo è quanto mai attuale. Il territorio, le sue risorse e la produzione sono davvero i fattori che in qualche modo fanno la cultura di un luogo.

La cultura non si mangia, ricordiamocelo sempre, ma sapendo insieme che cultura vuol dire anche consapevolezza di sé e dei propri mezzi, amore per sé stessi e per gli altri, riconoscimento reciproco, sinergia.

Tutte cose di cui non possiamo fare a meno, perché qualunque sia il profilo della crisi, se ne può uscire soltanto tutti insieme.