E se la tre giorni che attende la Chiesa locale dal 9 all’11 di settembre tornasse utile più in generale? In fondo si parte dai dati concreti del territorio e da una ricerca di senso difficile da eludere tanto per i credenti quanto per i non credenti
Dice che a Rieti, coi santuari che ci sono, dovrebbero arrivare 20 pullman al giorno. E che nel Reatino abbiamo tutto: le acque, la montagna, una natura bella e incontaminata, una pianura fertile, una storia importante e tante eredità artistiche e architettoniche del passato. Il teatro – lo ha detto Uto Ughi – ha l’acustica migliore d’Europa. E l’elenco si potrebbe ancora allungare, ma è meglio lasciar perdere per non farsi troppo male: dice che tutto questo ben di Dio è come abbandonato, misconosciuto, mal vissuto.
In certi casi è offeso dalle scelte urbanistiche, dalla mania di fabbricare, da una pubblica incapacità di concepire il bello e l’utile. Altre volte è sporcato dall’egoismo privato, dalle discariche abusive degli zozzoni, o è più semplicemente sommerso dall’erba alta.
Un carico di inefficienze e noncuranze che esaspera i cittadini. Gli innamorati del territorio sono tanti e i discorsi che puntano il dito sul potenziale inespresso vanno per la maggiore. Parole arrabbiate e ben documentate che passano opportunamente in rassegna ogni buona occasione sprecata. Il tono è a metà fra il rancoroso e il rassegnato: «E con questa risorsa “tu” non fai, “tu” non valorizzi, “tu” non accogli?»… Un “tu” impersonale e vago, automaticamente incapace di applicare ricette tanto giuste quanto scontate, di assecondare le vocazioni naturali del territorio.
Ma a ben vedere l’atto d’accusa sembra il negativo di un “io” impotente e insoddisfatto. Forse perché si scopre incapace di consistere in un “noi” determinato, in una comunità tenuta assieme da interessi convergenti. Al limite si può assistere alla capacità di coordinarsi “contro” qualcosa, più difficilmente ci si stringe in favore di un bene comune. Salvo poi guardare con invidia quei territori che con «qualche sasso» riescono a mettere in fila i turisti.
E allora viene il sospetto che la tara che ci frena sia tutta in un senso d’identità troppo astratto e spesso contraddittorio. Forse stiamo facendo la fine di quel tale dotato di molteplici talenti e poche forze. Si mise in testa di eccellere in tutto, col prevedibile risultato di restare un povero dilettante in ogni campo. Mentre per riuscire gli sarebbe bastato scegliere una strada e mettere il resto delle sue capacità a servizio di quella.
Ma se così stanno le cose, per riprendere a Camminare con convinzione, per ricominciare a Costruire bellezza e vita buona, dovremo prima o poi decidere di Confessare a noi stessi chi siamo, riscoprire il nostro “io” più profondo, la nostra unicità, la nostra vocazione primaria. E magari anche contarci, capire su quali forze possiamo realisticamente fare leva e provare a perseguire due o tre obiettivi concreti.
È l’impostazione che sta dietro all’Incontro pastorale programmato dalla Chiesa di Rieti per il 9, 10 e 11 settembre presso la nuova struttura ecclesiale di Contigliano, ma il metodo torna certamente valido anche in termini più generali. Del resto, nella tre giorni diocesana si ragionerà sul da farsi a partire da statistiche, dati concreti e realtà di fatto: notizie e numeri che saranno incrociati e rimessi in circolazione, a disposizione di tutti.
Non a caso all’evento sono invitati non solo i fedeli, il clero e la galassia delle realtà ecclesiali, ma anche chi è impegnato nella cosa pubblica, nel volontariato, nella realtà economica: lavoratori, imprenditori e sigle di categoria. Soggetti che vivono, ciascuno a modo proprio, su un terreno comune a quello abitato dalla Chiesa.
E questa non si sottrae al confronto, ma cerca di offrire una lettura, una risposta cristiana ai problemi, alle profonde trasformazioni sociali e politiche di questi ultimi anni. Questioni che coinvolgono tutti, sulle quali la Chiesa sente di dover ascoltare anche gli uomini di pensiero, chi ha competenze tecniche e scientifiche, gli artisti e i letterati, insieme alla voce dei poveri, dei malati, degli emarginati.
Naturalmente, grandi aspettative sono riposte nei giovani. Ce lo ha ricordato anche papa Francesco pochi giorni fa dalla Polonia: «La Chiesa vi guarda, il mondo oggi vi guarda e vuole imparare da voi». È così anche a Rieti: c’è da coniugare la forza, la freschezza, l’apertura al futuro dei ragazzi a uno sguardo più maturo, per tirare fuori il meglio dalle diverse generazioni. Il ricavato sarà speso dalle realtà ecclesiali per individuare le strategie più idonee all’evangelizzazione, ma è auspicabile che questa ricchezza in umanità venga anche investita sul terreno politico, economico e sociale.
Un esperimento in questo senso lo si tenta da tempo con il Cammino di Francesco. Ma se questo ancora non decolla non dipende dall’erba alta sul tracciato, dalla segnaletica dispersa o mai posata, da una mancata promozione: senza un cambiamento della coscienza difficilmente si può dare un nuovo corso al resto delle cose. Puntare sulla parte economica senza approfondire la parte spirituale, in questo genere d’impresa, è uno sforzo che porta poco lontano.
È nel Confessare che si fa avanti l’urgenza di una risposta attiva ai problemi, di una testimonianza in grado di fare fronte non solo alle carenze del quotidiano, ma pure alle grandi sfide del nostro tempo.