Disoccupati di tutto il mondo, unitevi!

In questo ultimo periodo raccontiamo continuamente la crisi del lavoro. È uno stato di necessità. Sono tante le fabbriche in dismissione e altrettanti i tentativi di salvare la poca occupazione che è rimasta. Di aziende in crisi, di negozi che arrancano, e di altre difficoltà, ancora si occupa qualcuno. Sindacati, giornali e istituzioni fanno il poco che possono.

Dei disoccupati, invece, pare si occupino solo le statistiche. Ovviamente per ricordarci che il trend è in crescita. La disoccupazione giovanile è ai massimi storici, e quella sopra i quarant’anni ha tratti drammatici.

Il problema, per la verità, non è solo italiano. Su 36 Paesi sviluppati, hanno perso il lavoro o stentano a trovarlo milioni di persone. A fine 2011, solo 6 nazioni potevano vantare un tasso di occupazione uguale o più alto di quello del 2007. E ogni previsione su un prossimo ritorno ai livelli occupazionali precedenti la crisi sembra destinata a cadere nel vuoto. Nella sola UE, l’Eurostat stima che a febbraio 2013 i disoccupati fossero oltre 26 milioni; nel 2000 erano meno di 20.

Questo sguardo dall’alto spaventa e dà le vertigini, ma aiuta a capire che il problema è diffuso. Eppure tante persone lo vivono come un dramma personale. Li assale un sentimento di sfiducia, quasi di impotenza. I nostri giovani ne sanno certamente qualcosa.

La scorsa settimana, commentando la manifestazione indetta dalla Diocesi, parlavamo della “solitudine dei lavoratori”. Ma quella dei disoccupati è anche peggiore. Nei fatti non c’è un soggetto sociale, una organizzazione, un abbozzo di movimento che se ne faccia carico. Né si sta facendo avanti una visione d’insieme per affrontare il problema.

Forse questo disinteresse dipende da una situazione oggettiva. Semplicemente non esistono le condizioni per una ripresa, né per organizzarla collettivamente in forma di istanze, di lotta, di rivendicazione. Ma a pensarci bene la contraddizione è terribile: ci sono innumerevoli bisogni – spesso essenziali – da soddisfare, e una enorme forza lavoro da impiegare. Possibile non si riesca a combinare le due cose?

Qual è l’ostacolo? Burocrazia europea, leggi nazionali sconclusionate, crisi economica concorrono a mettere i bastoni tra le ruote alle persone di buona volontà. Questi freni appaiono al povero cittadino isolato cose lontane, contro le quali non si può combattere. Ne deriva una sorta di fatalismo, uno stato di vana, frustrante attesa.

E un nuovo periodo di riformismo, che punti a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese non sembra essere all’ordine del giorno.

Ma davvero non possiamo fare nient’altro? Davvero ci dobbiamo rassegnare ad assistere a questo spreco di forza, di creatività, di umanità?

Forse no. Forse anche i disoccupati, anche quelli più cronici e sfiduciati, mettendosi insieme potrebbero combinare qualcosa. Ovviamente c’è da fare impresa, in senso ampio. Dalla più tradizionale a nuove forme da inventare di cooperazione sociale, deve pure essere possibile dar vita a qualcosa di utile e originale. Sarebbe già un modo per fare economia e misurarsi con la realtà.

Sappiamo che oggi appare tremendamente difficile. Si tratta di nuotare controcorrente, alla ricerca di un riscatto non solo personale. Si tratta di superare il disinteresse delle banche e di affrontare il labirinto della pubblica amministrazione. Si tratta pure cominciare a pensare che il lavoro non “si trova”, ma “si fa”.

E se in questo genere di scommessa si riuscisse pure a mettere insieme le generazioni, i nuovi disoccupati ventenni con quelli di cinquant’anni, le cose potrebbero prendere una piega migliore.

Voi direte che è un’utopia, che è più facile dirlo che a farlo. Forse è vero, ma al momento non ci viene in mente nulla di migliore. Rimboccarsi le maniche è l’unica cosa sensata da fare.