Con il Brexit 73 seggi vuoti all’Europarlamento. Sarebbe solo il primo effetto del referendum

Il voto del 23 giugno stabilirà se l'”avventura” comunitaria del Regno Unito, cominciata con l’adesione nel 1973, deve proseguire o interrompersi, con le relative conseguenze politiche, istituzionali ed economiche. Ma sorge un dubbio: alla prossima plenaria, l’Assemblea Ue vedrà ancora seduto al suo posto il combattivo indipendentista Nigel Farage?

Settantatré seggi vuoti? L’incubo-Brexit (Britain Exit), che da tempo toglie il sonno a molti responsabili Ue, prende ora la forma di un interrogativo: se al referendum del 23 giugno gli elettori del Regno Unito decidessero per il sì, ossia per il divorzio tra Londra e il resto d’Europa, cosa accadrebbe alla successiva sessione plenaria dell’Europarlamento, fissata dal 4 al 7 luglio? Gli eurodeputati britannici siederebbero ancora nei loro banchi oppure rimarrebbero a casa? Certo, in caso di successo dei “leave” le conseguenze sarebbero di proporzioni notevoli, tutte da valutare, con possibili ricadute sull’economia e sulla politica dell’isola e anche dell’Unione europea nel suo insieme. Eppure la domanda sulla composizione dell’Assemblea di Strasburgo non è di lana caprina, nel senso che riassume i nodi sui futuri rapporti – istituzionali, politici, economici, sociali – tra Londra e la “casa comune”.

Rappresentanza frammentata. Attualmente su 751 eurodeputati, i rappresentanti britannici sono 73: terzi per numero, in ragione della popolazione, dietro ai 96 tedeschi e ai 74 francesi e con un seggio in più rispetto ai 72 italiani. 22 di loro, del partito indipendentista inglese Ukip, capitanati dal pirotecnico Nigel Farage, siedono nel gruppo Europa della libertà e della democrazia diretta (sigla Efd): ovvero il gruppo euroscettico – anzi “no Europa” – per eccellenza. 21 eletti del Conservative Party, cioè i Tories del premier David Cameron, si collocano tra i Conservatori e riformisti europei (Ecr). Altri 20, laburisti, sono fra i Socialisti e democratici (S&D); 6 i Verdi (eletti nel Green Party o nello Scottish National Party); e, ancora, un deputato ciascuno tra i Liberaldemocratici, la Sinistra unitaria, l’altro gruppo euroscettico Europa delle nazioni guidato dalla francese Marine Le Pen e, infine, un “non iscritto” (l’unionista irlandese Diane Dodds).

L’ultima volta? I capigruppi all’Europarlamento sono allarmati per quanto potrebbe accadere il 23 giugno, sia per il futuro del Regno Unito e dell’Ue, ma anche per lo scossone ai rapporti di forza all’interno dell’Europarlamento che si registrerebbe con il ritiro degli esponenti britannici. Il più sicuro di sé è lo stesso Nigel Farage:da anni si batte, con il suo United Kingdom Indipendent Party, per chiudere l’esperienza inglese nell’Ue, iniziata con l’adesione del 1973.“Spero che questa sia l’ultima volta che intervengo in quest’aula come eurodeputato britannico”, ha affermato con spavalderia durante la plenaria del 6-9 giugno a Strasburgo. La battaglia contro l’integrazione comunitaria “non avrà fine finché non avremo deciso di staccarci da Bruxelles”. Manfred Weber, tedesco, alla guida del principale partito europeo, i Popolari, mai tenero verso gli euroscettici e i nazionalisti di ogni genere, come al solito parla chiaro: “Solo ai britannici spetta decidere del loro futuro, noi possiamo semmai fare il tifo affinché il Regno Unito resti nell’Ue. Però dobbiamo sottolineare che l’adesione all’Unione europea non è obbligatoria: è una scelta consapevole che comprende precise responsabilità. Si può stare dentro o fuori, accettandone le conseguenze”.

Dibattito politico. Ma l’elettorato del Regno Unito è davvero consapevole della posta in gioco? “Questo lo deve chiarire il dibattito politico interno e lo devono spiegare i leader e i partiti inglesi – afferma Weber –. Così come dovrebbero riflettere su quale tipo di Regno Unito vorranno nel futuro anche in relazione alle grandi sfide mondiali: l’economia, la sicurezza, i rapporti con Stati Uniti, Russia e Cina. Non è solo questione di migrazioni…”.Ma se vincessero i “sì” al Brexit, cosa succederebbe nell’Europarlamento?“Su questo aspetto il Trattato non mi sembra chiaro. Di sicuro in seno al Consiglio europeo”, dove siedono i capi di Stato e di governo, il premier inglese “perderebbe il diritto al voto”, e quindi “Londra non avrebbe più alcun potere decisionale in sede Ue”. Per lo status di eurodeputati, invece, occorrerebbe attendere fino al distacco ufficiale tra Ue e United Kingdom.

Il tifo per il “no”. Il Liberale belga Guy Verhofstadt si fa scuro in viso e afferma: “Con il Brexit ci saranno pesanti conseguenze” per i sudditi della regina Elisabetta. “Ne risentirà l’economia, le imprese pagheranno un prezzo salato, Londra sarà tagliata fuori dal mercato unico. Gli inglesi non riusciranno da sé a controllare i flussi migratori in arrivo. Non solo, gli oltre un milione di britannici che vivono e lavorano nei Paesi Ue dal giorno dopo saranno stranieri nell’Unione”, al pari di un qualsiasi cittadino americano, africano o asiatico.

“Per studiare o lavorare in Germania o in Francia, ad esempio, dovranno chiedere il permesso di soggiorno”.

L’italiano Gianni Pittella, capogruppo dei Socialisti e democratici, dapprima sorride: “Spero che alla prossima plenaria saremo qui a brindare per la decisione britannica di restare nell’Ue. Lo spero per il bene del Regno Unito e dei suoi cittadini, e anche per quello dell’Ue. Tocca a loro scegliere, ma io ritengo che la decisione migliore per tutti sia quella di restare insieme, operando uniti per migliorare questa nostra Europa”. Anche Philippe Lamberts, ecologista belga, europeista convinto ma sempre attivo nel denunciare i ritardi delle politiche comunitarie, spera che vinceranno i “no”. “Ci scommettono anche i bookmaker”, e strizza l’occhio. Anche se nei sondaggi le due opzioni risultano pressoché appaiate. “Non è solo una questione interna. Con il Brexit – dice – tutti sarebbero indeboliti, Regno Unito e Unione europea. Per questo noi Verdi ci stiamo battendo sull’isola perché prevalgano il buon senso e l’unità europea”.