Leopardi e la Bibbia

Loretta Marcon mostra i rapporti tra il poeta e i libri di Giobbe e Qohélet

È estremamente difficile poter apporre una qualche ‘etichetta’ a Leopardi. Di lui, un po’ come per Qohélet, è stato detto di tutto: pessimista, depresso, stoico, epicureo, illuminista, romantico, materialista, ateo, ecc… ma (…) crediamo valga ricordare il principio che l’essere umano è un unicum irripetibile”.

Loretta Marcon, studiosa tra le più accreditate di Leopardi, affronta il “suo” autore dopo il clamore mediatico suscitato dal film di Mario Martone. Lo fa attraverso l’edizione in un unico volume di due suoi precedenti lavori usciti separatamente nel 2005 e nel 2007. Il nuovo libro, “Leopardi, Giobbe, Qohélet, La ricerca” (Antonio Stango Editore, 225 pagine), prende di petto una questione certamente datata ma sempre affascinante: il rapporto tra il poeta dell’Infinito e la fede. Le parole della studiosa in apertura sono in realtà un duro attacco a quanti hanno cercato di creare un Leopardi a proprio uso e consumo, e soprattutto a uso e consumo delle loro convinzioni ideologiche. E prendono di mira anche a chi è convinto che esista o un Leopardi ateo o, al contrario, un Leopardi credente. Che insomma il poeta possa essere semplificato in due “confezioni”.

La realtà è, come per tutte le umane cose, assai diversa. Intanto il recanatese attinge fin da giovane alla Bibbia, leggendola dall’ebraico, come dimostrano le lettere del padre Monaldo, e, da poeta e pensatore maturo, assume posizioni che non sono lontane né da quelle di Giobbe né dell’Ecclesiaste. E qui il discorso della Marcon diventa complesso e nello stesso tempo affascinante, perché da una parte, in Giobbe, si assiste alle vicende di un uomo giusto che viene tentato dalla gratuità apparente della sventura senza senso e da un Dio che lo lascia nelle mani del Nemico, dall’altra, in Qohélet, vediamo la cancellazione di ogni ideale di gloria. Soprattutto l’Ecclesiaste, afferma la Marcon sulla scorta di interpretazioni come quelle di Ravasi e Ceronetti, potrebbe essere letto come una testimonianza ad un passo dall’ateismo. E questo darebbe ragione a quanti vedono in Leopardi la negazione della presenza divina nella storia. Ma le cose sono assai più complesse. Intanto Qohélet parla della vita degli uomini in senso mistico: le cose del mondo non valgono nulla se confrontate con l’eternità. Dio è avvicinabile solo con la rinuncia e non con l’amore per le cose. Discutibile, ma alla base di una grande tradizione sia in oriente che in occidente. Anzi, è possibile vedere in Qohélet una straordinaria consonanza con visioni del rapporto uomo-Dio radicate in religioni non cristiane. Per questo non è possibile parlare di disperazione e di mancanza di un riconoscimento divino nelle parole dell’Ecclesiaste, come taluni hanno fatto. E Leopardi? La sua grandezza sta proprio nel fatto, e fa bene la Marcon ad evidenziarlo, che la sua poesia risuona di Giobbe e di Qohélet senza mai esserne copia, ma riproponendo quei discorsi sul senso della vita e sul timore del nulla alla coscienza di gente che nella prima fase dell’Ottocento si beava delle “magnifiche e progressive sorti” dell’umanità. Il nesso sta qui.

Non si tratta di negazione di Dio, ma del fatto, come scrive Ravasi, che “Qohélet è convinto che l’azione divina è impenetrabile e perciò improponibile ogni ricerca di senso, ogni consolatoria religiosa e filosofica”.

Il che vuol dire non ateismo, ma percezione della indecifrabilità del piano divino su di noi, che è cosa assai diversa. Scrittori moderni, come Giuliotti e Tozzi, pur credenti, hanno presentato nelle loro opere uno scenario di violenza e brutalità cieche, senza apparente spiegazione, perché talvolta gli uomini si allontanano dalle leggi eterne. In questo caso non Dio si allontana dagli uomini, ma sono loro che prendono le distanze da un Dio che li aveva posti in una natura benevola, e che si sono fatti trascinare da un orgoglio sfrenato, pensando di essere diventati artefici del proprio destino.

Leopardi non è né tutto ateo, né mai tutto convinto dell’esistenza di un Dio trascendente, ma, come uomo consegnato dalla sua stessa cultura a pensieri abissali, indaga costantemente il senso della vita, attingendo, come nota la Marcon, alle radici stesse della fede. Non è una contraddizione, ma una caratteristica della ricerca più autentica.