L’eurocrisi globale

Oggi l’Europa pare assai lontana dall’utopia che raccoglieva il consenso di grandi uomini politici e intellettuali. La natura più profonda del progetto europeo avrebbe dovuto essere il dispiegamento di una terra dei diritti e della civiltà universale. Ma la sua burocrazia lontana dai popoli, asservita all’ossessione mercatista neoliberale ne contraddice quotidianamente la ragion d’essere e apre il campo a crisi e storture.

l’Europa vista dall’Italia


L’Europa è onnipresente. Non c’è atto del Governo, non c’è provvedimento, non c’è sguardo sul futuro di ognuno di noi su cui non si proietti la sua ombra. Ma alla maggior parte della popolazione cosa sia e cosa voglia questo apparato sovranazionale non è affatto chiaro. Eppure è in quelle sedi che si decide sull’economia, il lavoro, le privatizzazioni e le pensioni. Le scelte che vengono prese a Bruxelles riguardano le vite di milioni di individui, ai quali resta ben poco margine di libertà rispetto alle questioni determinanti. I più giovani, in particolare, sono i primi a sopportare il peso degli orientamenti europei. Li pagano con il loro presente precario e con il loro futuro incerto. Si trovano a dover subire logiche estranee ai loro bisogni, senza avere la minima possibilità di poterle governare, spogliati della sovranità che modella la fisionomia di istituzioni lontane e tiranniche.

dentro il pantano


Le aspettative delle giovani generazioni però, non sono le sole a battere la testa contro il duro muro delle logiche comunitarie. Prendiamo ad esempio la riforma del mercato del lavoro. Il Governo italiano si appresta a vararla per dare seguito alle pressioni di Bruxelles. La promozione dell’occupazione giovanile attraverso l’introduzione di ulteriore flessibilità nel sistema è solo una faccia della medaglia. L’altra sono le prospettive asfittiche di chi è arrivato a metà del proprio cammino occupazionale. Si vuol rendere più facile il loro licenziamento, la loro uscita dal ciclo produttivo. E poco importa se la probabilità che trovino un nuovo lavoro è assai bassa. Donne e uomini paiono come impantanati in un processo perverso, che svecchia la costosa mano d’opera dei padri sostituendola con quella dei figli. Può darsi che quest’ultima sia più produttiva. Sicuramente è più a buon mercato, grazie a legislazioni ad hoc, scritte con la scusa della crisi e condite con la retorica degli ammortizzatori sociali.

cui prodest?


Nei fatti, le norme sul “licenziamento facile” promesse all’Europa renderanno la vicenda della nostra Ritel il normale modus operandi delle imprese. Basterà loro dichiararsi in crisi per potersi disfare dei dipendenti, senza che questi possano rivendicare la dignità del proprio lavoro. Poi, passata la bufera, arriverà mano d’opera nuova: quella dei giovani che lo Stato offre “a prezzo di favore”, mentre paga la cassa integrazione ai lavoratori “dismessi”. È un meccanismo che non serve certo per aumentare il benessere dei popoli europei. Si tratta semmai di placare un poco gli insaziabili appetiti dei cosiddetti “investitori internazionali”, ai quali piace metter denari dove mancano le tutele. Evidentemente credono che i diritti di tutti siano inversamente proporzionali al profitto di pochi.

la malattia del debito


Per questa via le burocrazie europee hanno stabilito che il debito pubblico (ovvero sanità, scuola, servizi, pensioni) è una malattia da curare con iniezioni di libero mercato e flessibilità. Si tratta di un punto di vista ideologico, tutto da dimostrare, il cui unico risultato, al momento, è un enorme trasferimento di ricchezza dalla base verso il vertice della piramide sociale. Evidentemente i burocrati europei rispondono più alle potenti lobby del capitale internazionale che ai popoli. Ed in effetti la loro posizione dipende molto più dai primi che dai secondi.

i sommersi e i salvati


A torto o a ragione, cresce tra i cittadini europei l’impressione che all’Unione stiano più a cuore le banche e il sistema della finanza globale che le condizioni di vita dei popoli dell’Italia, della Grecia o della Spagna. Pare quasi che il vecchio continente si sia trasformato in una macchina per estrarre il massimo valore economico dalle persone e dall’ambiente. La crisi si presenta con i tratti dell’economia, ma in realtà è culturale e politica. È dopo aver ridotto l’umano alla sola dimensione del mercato che l’unico progresso possibile diviene l’ampliamento dei margini del profitto. Di lì discende l’urgenza dell’aumento dell’età pensionabile, la necessità di comprimere i diritti sul lavoro, il bisogno di privatizzare quel che non si potrebbe o dovrebbe (oggi l’acqua, domani, chissà: l’aria?).

La politica commissariata


I meccanismi dell’Unione rendono i popoli europei oggetto di una sorta di commissariamento. In forza dei trattati che la fondano, sugli argomenti decisivi l’Europa lascia ai governi e ai parlamenti degli Stati una sovranità limitata. Grazie a questo, sotto il peso degli interessi strategici del capitalismo finanziario, le istituzioni della Comunità compiono scelte discutibili, cui i popoli possono opporre ben poco. Solo grazie all’appoggio delle burocrazie europee l’apparato finanziario neoliberale riesce a piegare le nazioni alle proprie logiche. Nessun governo infatti, neanche uno sciatto e pieno di improvvisatori come i nostri, potrebbe permettesi di distruggere la propria base elettorale. Ma gli ultimatum europei, gli aut-aut delle banche centrali, le minacce franco-tedesche, condite di paura per la crisi, legittimano le scelte più scellerate («lo facciamo perché ce lo chiede l’Europa»). È una situazioni in cui il colore politico non fa differenza. Un governo di sinistra, o di centro-sinistra infatti, sarebbe altrettanto “commissionato” di quello Berlusconi. Magari girerebbero un po’ meno escort in politica, ma per i senza lavoro e gli ultimi di ogni specie sarebbe una magra consolazione.

lo spirito deluso


Lo spirito del processo di unificazione europea pare ormai perso per sempre. Si è smarrita, in particolare, l’idea di una cooperazione fra i popoli come terreno fertile per un progresso spirituale e materiale dell’uomo. La fortezza impenetrabile della burocrazia nega le ragioni stesse del progetto europeista. Fattasi serva del mercato, corrode la protezione sociale e l’autonomia democratica.

Una diffusa riflessione sull’Europa sarebbe oggi più che mai necessaria. Occorrebbe promuovere una nuova consapevolezza attorno ai limiti della sua attuale impostazione. Forse è l’unica strada per superare questa Unione tutta finanza e debito e dare nuovo impulso agli aspetti migliori dello “spirito europeo”. Ma una spinta in avanti verso il compimento di una Europa dei popoli, una desiderabile terra dei diritti e della democrazia, pare ancora mancare.

Non si può più aspettare la politica dei piccoli passi. Se si vogliono salvare le conquiste di civiltà elaborate dal “vecchio continente”, in questa situazione non si può che tornare indietro. La scelta dolorosa del default, del rifiuto di pagare il debito e dell’uscita dall’euro diventano sempre più desiderabili. Di fronte all’incapacità di un salto di qualità dell’Unione, la ricostituzione di una moneta nazionale non è una richiesta ideologica, ma l’unica strada percorribile dai popoli per restituire alla cittadinanza il principale strumento economico, sottraendolo a incontrollabili tecnocrati.

Nell’eurozona le cose vanno sempre peggio e ogni giorno vediamo il lavoro, la scuola e gli ospedali andare perduti assieme alla fatica fatta per ottenere tante conquiste. Il nostro tempo chiede il coraggio di proporre e intraprendere prospettive diverse, di fondare e organizzare scelte apparentemente fuori dal tempo. Occorre lo sforzo di prendere parte alla Storia dimostrando che al delirio capitalistico finanziario è possibile opporre un’altra strada, che in qualche modo guarda all’uomo, alle sue ragioni, a quanto di grande e bello è riuscito a costruire la civiltà occidentale.