La vertenza Ritel e le contraddizioni del sistema

In questi giorni si è assistito al precipitare degli eventi nell’ambito della vertenza Ritel. Si è vista l’uscita di scena di uno dei protagonisti (Alcatel), ridurre i tempi del piano industriale di Elemaster portati da 5 a 3 anni, e la riluttanza da parte della società Ritel alla propria messa in liquidazione.

Tutti argomenti, che come affermato dal Presidente della Provincia Fabio Melilli, verranno affrontati nel tavolo di crisi da Lui convocato presso la Regione Lazio.

Una delle questioni più controverse emerse dalla vicenda è la volontà del nuovo soggetto industriale di lavorare presso lo stabilimento con delle maestranze di propria scelta. L’impresa sostiene di poter operare con competitività solo con forze giovani e motivate (e magari competitive da un punto di vista di costo del lavoro).

Una scelta che fa venir meno i presupposti degli sforzi istituzionali compiuti finora, volti a salvaguardare i posti di lavoro messi a rischio dal fallimento di Ritel.

In questa vicenda c’è tutta la contraddizione di una politica del lavoro messa in campo con approssimazione, fretta ed anche una certa incompetenza.

Da un lato si chiede ai cittadini di allungare il proprio iter lavorativo, in virtù di una serie di circostanze che non permettono una spesa pensionistica elevata. Dall’altro si considerano maestranze di un’età madia di 45 anni non adeguate all’attuale mercato del lavoro.

Su questo, le trombe che squillano intorno al problema della disoccupazione giovanile, fanno sì che si cerchi di porre rimedio al problema incentivando l’assunzione dei più giovani attraverso sgravi. E pazienza se di chi superato una certa soglia d’età per ciò stesso diventa poco competitivo nel mercato del lavoro (salvo rare eccezioni in cui comunque viene richiesta e riconosciuta professionalità).

Non basta promuovere una politica assistenzialista di massa, come avviene anche in altri paesi (es. Germania). Lì si riesce ancora a produrre la ricchezza con cui si ripagano certe spese. Da noi questa situazione è all’opposto e una politica di ammortizzatori scellerata porterebbe la nostra economia ancora più al collasso.

La soluzione dovrebbe esser incentivare le assunzioni comunque, non solo in base all’età, ma anche in base all’esperienza, alle capacità e alla volontà, lasciando libero il mercato del lavoro. Al contrario, si crea una sorta di concorrenza generazionale sleale, che vede chi è più giovane con più possibilità.

Occorrerebbe piuttosto dare modo a chi perde il posto di lavoro di stare al passo con i tempi. La società progredisce tecnologicamente a ritmi elevati, per cui occorre potersi aggiornare e riconvertire. E meglio sarebbe se ciò avvenisse attraverso lo strumento pubblico, e non con società private che lucrano su tale situazione chiedendo soldi a chi non ha un lavoro.

Bisognerebbe anche alzare l’età di accesso ai concorsi pubblici e alle forze armate. È un controsenso chiedere di lavorare fino a 67 anni e tenere ferma l’età massima di accesso ai pubblici concorsi attorno alla media dei 30 anni.

Correre a stravolgere il mercato del lavoro per dare risposte celeri agli organi sovranazionali che ce lo chiedono, non potrà far altro che aumentare la spesa e creare disparità sociale e generazionale.

Questo problema c’è da diverso tempo. Forse era il caso di affrontarlo prima, cercando di dare le giuste risposte e analizzando le conseguenze di ogni decisione presa in una materia così complessa.