Violenze in Burundi. I poveri in fuga verso il Rwanda

Le cifre sono già preoccupanti. Dei 50mila fuggiaschi, la metà ha trovato riparo nel Paese “gemello”. L’abbé Emmanuel Rubagumya, vicesegretario generale di Caritas Rwanda: “I rifugiati burundesi sono più di 25mila, sistemati in vari campi gestiti dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati”. La solidarietà della Chiesa cattolica, ma servono almeno 5 milioni di dollari per i prossimi mesi.

Una città, Bujumbura, attraversata da manifestazioni, la cui repressione ha provocato almeno 18 morti. Un Paese, il Burundi, che dopo quella durata dal 1993 al 2005 teme una nuova guerra civile. E migliaia di persone in fuga già da settimane per paura delle violenze puntualmente esplose quando il presidente in carica, Pierre Nkurunziza, ha annunciato di voler correre per un terzo mandato considerato incostituzionale dall’opposizione e che vedeva contrarie la società civile e la stessa Chiesa cattolica.

Emergenza internazionale.
Sono oltre 50mila i fuggiaschi, che hanno preso diverse direzioni: quella del Sud Kivu, provincia della Repubblica Democratica del Congo, dove sono arrivati in 8mila; quella della Tanzania, dove quasi 18mila persone hanno attraversato la frontiera dopo che erano state cancellate le restrizioni al loro ingresso e infine quella del Rwanda. Cioè il Paese “gemello” del Burundi per la composizione etnica e la storia di sanguinose contrapposizioni tra le due principali componenti della popolazione, quella hutu e quella tutsi. Proprio da Kigali arriva la testimonianza dell’abbé Emmanuel Rubagumya, vicesegretario generale di Caritas Rwanda, che sta seguendo in prima persona l’emergenza. “I rifugiati burundesi – racconta – sono più di 25mila, sistemati in vari campi gestiti dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati: il più grande è nell’area di Kibungo, nell’est del Paese, e può ospitare fino a 60mila persone”. Gli arrivi, anche se più lentamente rispetto alle ultime settimane, proseguono ancora, testimonia il sacerdote, e i primi a cercare rifugio oltreconfine sono i più indifesi: “Ci sono più bambini – continua l’abbé Rubagumya – rispetto a donne e uomini adulti: sono circa 14mila, contro 6mila donne e 5mila uomini, per lo più si tratta di famiglie di agricoltori poveri spaventati dalla crisi politica, gente comune: non pesano neanche le differenze etniche” tra hutu e tutsi. Un fattore, quest’ultimo, che in una regione ancora segnata dal genocidio del 1994 resta un potenziale motivo di tensione che i partiti politici potrebbero decidere di sfruttare, malgrado sia Nkurunziza che il suo principale oppositore, Agathon Rwasa, siano di etnia hutu.

Servono risorse. Tra i fuggiaschi, spiega il vicesegretario della Caritas, “ci sono anche alcuni ricchi cittadini di Bujumbura, che possono pagare e vivono in incognito nella capitale, mentre altre famiglie hanno mandato alcuni parenti da vecchi amici ruandesi”. I poveri, però, sono la maggioranza, ed è questo a preoccupare di più le organizzazioni umanitarie. “Nessuno ha portato con sé molte cose, al massimo qualche bicicletta e spesso le persone arrivate nei campi erano debolissime, molti bambini sono addirittura malnutriti”, prosegue il sacerdote. Lo stesso allarme è stato lanciato dal Programma alimentare mondiale, attraverso la portavoce Elizabeth Byrs, che ha ammesso come quest’agenzia delle Nazioni Unite non abbia, in Rwanda, sufficienti risorse per far fronte all’arrivo dei burundesi in fuga. Per assistere quelli (fino a 100mila) che potrebbero trovarsi in territorio ruandese tra sei mesi, ha specificato la donna, c’è bisogno di un minimo di 5 milioni di dollari. “Anche l’Alto commissariato per i Rifugiati ha chiesto a tutti di partecipare all’assistenza – ha spiegato l’abbé Rubagumya – perché finora l’Onu è riuscita ad aprire i campi e a fornire un minimo sostegno a tutti, ma i bambini, le donne incinte e quelle con figli molto piccoli hanno bisogno di trattamenti particolari; se i rifugiati dovessero contare solo sulle risorse dei villaggi locali, poi, il rischio sarebbe la fame in quell’area del Rwanda”. Anche la Caritas, insieme ad altre organizzazioni non governative, si è dunque mobilitata per evitare lo scenario peggiore: “Ci è stato chiesto – riferisce il religioso – di fornire il nostro aiuto nel settore nutrizionale, ma abbiamo anche dato vita a una mobilitazione diocesi per diocesi e parrocchia per parrocchia, in modo da raccogliere vestiti, perché molti profughi arrivano con poco o nulla addosso: domenica si è svolta una colletta nazionale in cui tutti sono stati invitati a dare qualcosa, anche denaro, perché le nostre risorse sono molto limitate e bisogna rapidamente prendersi cura dei più poveri e vulnerabili nei campi, compresi i malati di Aids”.