Il bioeticista Salvino Leone sull’utilizzo di animali nelle sperimentazioni, ma “nella consapevolezza della loro dignità di esseri viventi (sia pure non assimilabili alle persone) senzienti”. I limiti: effettiva necessità della sperimentazione; assenza di altre valide alternative; finalità proporzionata all’uso sperimentale dell’animale; evitare al massimo ogni sofferenza.
Sono riesplose in questi giorni le polemiche sulla sperimentazione animale. Il Senato infatti ha approvato quattro mozioni che impegnano il governo ad assumere dei provvedimenti per limitare l’utilizzo degli animali durante le sperimentazioni scientifiche e a investire più fondi sulle metodologie alternative all’uso delle cavie da laboratorio. Ancora una volta, dunque, animalisti da una parte e scienziati dall’altra, si scontrano – e in qualche scambio non mancano accenti “ideologici” – sul modo di perseguire una meta che dovrebbe essere comune: la miglior salute dei cittadini. Abbiamo raccolto il parere di Salvino Leone, medico ginecologo e bioeticista, docente di teologia morale presso la Facoltà Teologica di Sicilia e presidente dell’Istituto di Studi bioetici “Salvatore Privitera” di Palermo.
La sperimentazione animale per testare nuovi farmaci ha ancora senso e, soprattutto, è ancora necessaria?
“Certamente le indicazioni alla sperimentazione animale si sono un po’ ridotte ma tale necessità è ancora presente. Credo sia importante, in tal senso, capire cosa s’intende per sperimentazione animale. Spesso si pensa a cani o gatti torturati nei laboratori farmaceutici. Il più delle volte, invece, tale sperimentazione riguarda dei topolini (per i quali, in genere, non si nutre poi una così grande simpatia), che non vengono assolutamente torturati, ma messi artificialmente nella condizione di ‘piccoli pazienti’, portatori di una determinata patologia da sconfiggere. Qualche volta, purtroppo, è necessario anche il loro sacrificio”.
Un sacrificio accettabile?
“Se il sacrificio di qualche topolino può aiutare a salvare delle vite umane, direi proprio di sì. Se oggi la poliomielite è pressoché scomparsa, lo dobbiamo al vaccino che veniva coltivato su rene di scimmia, e in passato molti soggetti con epatite fulminante venivano salvati grazie alla perfusione in fegato di maiale che era l’unica soluzione possibile. Avremmo preferito maialini vivi e pazienti defunti, oppure bambini poliomielitici e scimmie saltellanti? Non dimentichiamo che uno dei motivi per cui ancora non abbiamo sconfitto l’Aids è proprio perché tale malattia non esiste nell’animale e quindi non è possibile sperimentare su di esso”.
Ma in base a quale principio si può giustificare l’uso degli animali da parte dell’uomo e per quali finalità?
“È la stessa storia umana a darci la risposta, nei fatti. Da sempre l’uomo ha fatto uso dell’animale: dal bue che ara la terra, al cavallo che trasporta il cow boy, dalla pecora che fornisce la lana, al cagnolino che fa compagnia. Il profondo rispetto che si deve nei loro confronti non coincide affatto con l’idea che essi non debbano in qualche modo essere ‘usati’ dall’uomo. Le finalità possono essere le più varie, ma sempre occorre avere la consapevolezza della loro dignità di esseri viventi (sia pure non assimilabili alle persone) senzienti e il rispetto della loro esistenza”.
Quali requisiti e limiti, allora, dovrebbero connotare l’eticità della sperimentazione animale?
“Ormai vi sono raccomandazioni, linee guida, leggi nazionali e sovranazionali, anche piuttosto severe, i cui principi fondamentali sono abbastanza semplici: deve esservi un’effettiva necessità per eseguire quella sperimentazione; non devono esservi altre valide alternative; la finalità deve essere proporzionata all’uso sperimentale dell’animale; e soprattutto va evitata al massimo ogni sofferenza per l’animale stesso. In base poi al tipo specifico di sperimentazione, vanno rispettate alcune ulteriori norme etico-prudenziali, più applicative”.
Esistono esigenze etiche diverse legate all’uso di specie animali differenti?
“Uno dei punti più problematici è proprio questo. Quando si parla dell’animale, infatti, e del rispetto per la sua dignità di essere vivente senziente, si allude il più delle volte a cani, gatti, scimmie o, in qualche modo, ad animali ‘superiori’. Raramente si fa riferimento al rispetto da avere per il topo o lo scarafaggio. È vero che lo sviluppo cerebrale dei primi è certamente maggiore, con una distanza evolutiva minore rispetto all’essere umano; questo potrebbe essere ritenuto un elemento discriminante. Ma chi stabilisce quali sono le caratteristiche animali (e in che grado) che rendono lecita la sperimentazione su di essi? Chi è titolato per discernere quali specie sono da tutelare e quali no? Evidentemente, alla fine sarà sempre l’uomo a decidere”.
A suo avviso, si può parlare di “diritti” degli animali?
“Assolutamente no, anche se questa mia affermazione può risultare non condivisibile e, nel clima culturale odierno, forse anche ‘politicamente scorretta’. In senso proprio, solo la persona umana vivente è soggetto di diritti. Non lo è neanche il cadavere umano, non lo è l’animale, non lo è la natura inanimata. Ma questo non significa certo che non debbano essere rispettati. Tutt’altro! Ma parlare di ‘diritti’ veri e propri da tutelare, nel caso degli animali, mi sembra non corrispondente alla loro natura”.