La crisi? Non sarà lotta di classe, però…

Ricominciare a guardare con occhio critico i problemi, senza accontentarsi della versione corrente, potrebbe dare qualche buon frutto.

Provando a cercare la parola “lavoro” su Google News si ottengono risultati preoccupanti. Basta leggere qualche titolo per avere un panorama fatto di lotte, crisi e proteste (“Ilva:operai ancora su altoforno e camino”), di lutti (“Morti sul lavoro, la piaga non si ferma. 468 dal 1 gennaio”) di allarmi (“Senza lavoro il 34,5% dei giovani”).

La cronaca sfonda una porta aperta: in tanti si rendono conto della situazione perché la vivono sulla propria pelle. Eppure è come se ogni questione fosse un caso isolato. Stentiamo a condividere fino in fondo problemi, drammi e indignazioni.

Forse dipende dall’avere ormai abbandonato l’idea del gruppo sociale, dell’appartenenza ad un qualche destino collettivo. In effetti il sentimento di adesione ad un movimento sindacale o ad un partito è praticamente estinto.

Non sono scomparse, però, le disuguaglianze. Basti guardare alle ridotte possibilità che hanno le persone di cambiare posizione sociale e qualità della vita. Per non parlare del potere reale di cui dispongono per decidere sulle cose che le riguardano. La leva fiscale, le politiche di austerità e il taglio dei servizi pubblici non pesano su tutti allo stesso modo.

Se non avessimo paura di apparire antiquati, diremmo che ci sono quasi i segnali di una strana lotta di classe a rovescio, nella quale i più ricchi fanno la guerra ai più poveri.

Avranno buona ragione i piccoli e grandi imprenditori nel fare le loro scelte in nome della competitività, ma non è forse il lavoratore a sentirsi minacciato, precario, subalterno? E chi soffre in prima persona riduzioni di stipendio, delocalizzazioni e flessibilità generalizzata? Le liste di attesa, la sanità inefficiente, la pubblica amministrazione sorda ai bisogni della gente, non raccontano di una cittadinanza squalificata, perdente, sottomessa?

La forbice tra ricchi e poveri, tra lavoro e rendita, tra privilegio e stato di necessità si allarga sempre più. Lo vediamo tutti, ma in fondo protestiamo senza convinzione. Forse ci siamo assuefatti. Ci siamo convinti sia questa la società in cui dobbiamo per forza vivere, quasi che assecondare gli interessi dei più forti sia una condizione naturale.

La “crisi” di cui tutti parlano ha il sapore della vittoria dei più ricchi contro tutti gli altri. È comprensibile che il vertice della piramide sociale abbia mal sopportato la (sia pur parziale) redistribuzione dei redditi, dei diritti e dei poteri prodotta dallo Stato sociale. Ma dobbiamo proprio lasciare che si riprenda tutto il vantaggio perduto?

Gli anni del benessere, della crescita, dello sviluppo, hanno diluito il conflitto sociale. Oggi suona falso parlare di classe operaia o di colletti bianchi. Pure l’idea di “borghesia” sembra vuota e inadeguata. Ma come chiamare i lavoratori dell’Alcoa o i precari dei call center?

La società è tutt’altro che pacificata e in armonia. Gli strati alti sono stati abili a consolidare, rendere omogenei ed incontrastati i propri interessi. Tutti gli altri sembrano sempre più frammentati, in confusione. Così privi di coscienza di sé da non saper più perseguire un qualche obiettivo comune.

Una situazione che ha reso possibile un gigantesco spostamento del reddito a favore dei ceti più agiati. Più o meno tutti gli economisti riconoscono l’enorme trasferimento di ricchezza dal lavoro alla rendita. Certe stime attendibili lo misurano pari al 15% del Pil.

Un movimento che lascia tanta povera umanità ad arrangiarsi per tirare avanti. Quanta gente soffre più di quanto non meriterebbe! La nostra società sta impercettibilmente scivolando verso una situazione di miseria, sofferenza, oppressione pur avendo le risorse per tutti.

Non ci si può rassegnare all’ideologia dei vincenti. Con la scusa di risolvere i problemi hanno ottenuto la precarietà, la contrazione dei redditi da lavoro, l’impoverimento programmato. Un aumento delle disuguaglianze che mette in competizione i lavoratori tra di loro.

Ritrovare motivi di unità per i gruppi sociali popolari, rintracciare motivi di “comunione”, può essere un progresso rispetto alla frammentazione, a tutte le articolazioni che li compongono, alla subalternità cui sono “costretti”.

Magari non occorre ritornare al concetto di classe, ma far entrare nei discorsi tutta la complessità della realtà, plurale e spesso conflittuale, potrebbe già essere un passo in avanti.

Comincerebbe a farsi avanti l’idea che i problemi non si possono risolvere solo a vantaggio di qualcuno. Che ci si può ancora battere contro le ingiustizie, per difficile che possa apparire. Che si può offrire un contributo di analisi, uno spunto di dibattito, e se si vuole anche un conforto, una voce di speranza e di solidarietà.