Suona la campanella del genio italico

Dalle 15,30 (le ore 9,30 di New York) del 13 ottobre, finisce la storia della Fiat e inizia ufficialmente quella di FCA (Fiat Chrysler Automobiles). È un evento storico non solo per l’azienda degli Agnelli, ma – viene voglia di dire – per tutta l’Italia intesa come paese, o meglio intesa come “popolo”. Il giovane John Elkann, erede di Gianni Agnelli, insieme a Sergio Marchionne, l’amministratore delegato, oggi sono chiamati a suonare alla borsa americana, il New York Stock Exchange (Nyse) la famosa campanella al termine delle contrattazioni di giornata. È la chiusura, in diretta, di un pezzo di storia economica e lavorativa del nostro paese.
FCA significa 4,3 milioni di auto prodotte in decine di stabilimenti in varie parti del mondo, 225.587 dipendenti, il 42% delle vendite in Asia, 27,4% nelle Americhe, 21,2% in Europa, 9,2% negli altri continenti. FCA significa anche che la sede fiscale del gruppo sarà a Londra, quella legale e societaria ad Amsterdam, la quotazione a New York e a Milano, e gli azionisti in ogni parte del mondo. Tolta la quota di Exor, cassaforte degli Agnelli, che detiene il 30%, il resto per la gran parte è azionariato estero, internazionale. Sono i fondi di investimento, fondi pensionistici, fondazioni e fondi sovrani (molti dei paesi arabi) che detengono quote in sé anche “piccole”, ma che dicono come ormai la globalizzazione sia un fatto compiuto, irreversibile.
Marchionne ha dichiarato che dopo l’avvio delle contrattazioni odierne girerà con la “valigetta” a cercare capitali, in ogni parte del mondo. Vuole far crescere la sua FCA ai livelli di General Motors e di Ford, che come capitalizzazione e numero di auto vendute la sopravanzano. E noi “italiani” come guardiamo a questa operazione? Sentiamo la Fiat che muore in Italia per rinascere a New York come una “perdita”? Da un lato dobbiamo rassegnarci alle logiche dell’economia globalizzata e sempre più integrata in sfere complesse e interdipendenti (fisco da una parte, capitali dall’altra, sede legale in una terza parte ancora, fabbriche di nuovo in altri paesi). I capitali odierni “fiutano” dove andare a insediarsi, e non è sempre per cercare solo un fisco più benevolo. Cercano anche altro: legislazioni più snelle, trattamento normativo migliore, sindacati più “benevoli” e collaborativi.
Ma almeno – come “italiani” nostalgici, in un certo senso, del “padrone” Gianni Agnelli che era e rimane il simbolo del capitalismo nostrano – dovremmo chiedere al Governo di turno, incarnato in Matteo Renzi, che usi tutte le sue possibilità per un paio di cose: prima che la FCA non tradisca, nel medio periodo, quel paese e quel “popolo” che ne ha permesso la vita e lo sviluppo (oltre ai generosi aiuti pubblici avuti nel corso dei decenni); secondo, che sappia valorizzare e quindi mantenere la genialità tutta italiana legata non solo a Fiat, ma anche a Lancia, Alfa Romeo, Ferrari e Maserati che sono stati e sono tuttora il vanto del nostro paese. Questo solo chiediamo a Renzi e a Elkann-Marchionne. Che non dimentichino la fatica e il genio dei tanti operai e tecnici che hanno “costruito” la Fiat, e con essa l’Italia industriale.