Così la figura del vescovo martire salvadoregno nel ricordo di Jon Sobrino
“Ai ricchi ha detto a più riprese: ‘Si sappiano distaccare in tempo, per amore, prima che glielo strappino con la violenza’”.
Questo è il vescovo salvadoregno, ucciso il 24 marzo del 1980, narrato da Jon Sobrino in “Romero martire di Cristo e degli oppressi” (Emi, 279 pagine). E’ un uomo con tutte le sue paure e titubanze, ma anche con la capacità di accettare i propri cambiamenti in un’età non più verde: la ferocia della persecuzione contro la Chiesa e i poveri, secondo l’autore, che gli fu molto vicino, “lo ha fatto cambiare e convertirsi. All’età di cinquantanove anni (…) monsignor Romero ha mostrato la vera umiltà di coloro che credono in Dio”. Sobrino, scampato nel 1989 al massacro in cui vennero uccisi dagli squadroni della morte sei gesuiti e due donne, vede nei tre anni di arcivescovo di San Salvador la definitiva percezione di una realtà che né mass-media né governo avevano davvero narrato e riformato, fatta di oligarchie economiche che sfruttavano la miseria del popolo e di uccisioni in massa e rapimenti di chi era impegnato nel sociale, tanto che fece ben presto sentire il suo grido: “vi supplico, vi prego, vi ordino, in nome di Dio: cessi la repressione!”.
Il problema era dunque quello di superare una posizione ecclesiale di timore e collaborazione verso il potere in prospettiva di una ricollocazione della Chiesa a favore degli sfruttati e dei sofferenti. Sobrino pone la questione, tuttora aperta fin dalle origini del pensiero cristiano, della liceità dell’uso della violenza quando si ritenga che non ci siano più possibilità di mediazione. In realtà Romero, (papa Francesco ha recentemente autorizzato la Congregazione per le cause dei santi a promulgare il decreto sul martirio del vescovo) ha fatto per quanto poteva appello ai potenti, al governo, alle forze armate affinché non si arrivasse al punto di non ritorno. Punto in cui la tensione non avrebbe più tenuto e gli oppressi sarebbero passati ad una azione armata. Era questo il punto che Romero temeva, perché avrebbe significato altro spargimento di sangue, altre devastazioni, altre vendette, altre ipoteche nefaste sul futuro del Paese.
Sobrino mette in risalto, e questo è uno dei punti fondamentali del libro, la somiglianza del vescovo martire con le figure dei profeti biblici. Come questi avevano messo in guardia i potenti a non sostituirsi a Dio e a praticare la giustizia, così monsignor Romero ha affrontato nelle sue lettere e nelle sue omelie il problema del potere separato dalla giustizia terrena e divina. Ma il vescovo conosceva bene anche i rischi potenziali nei movimenti della sinistra, che erano quelli, come insegna la storia, della tentazione all’egemonia e ad una auto-percezione assolutistica. Come riconosce Sobrino, “si deve aggiungere che l’assolutizzazione era vista come un male perché in quel caso l’organizzazione veniva cercata come fine a se stessa e non ‘il più importante servizio al popolo’, perché ‘le si subordinano tutti gli altri interessi, anche se sono del popolo’ ”.
Ma nel libro emerge soprattutto il lato umano del vescovo, minacciato da forze economiche e politiche, tormentato da dubbi, cosciente della sofferenza degli ultimi. Aveva capito che l’uomo di fede doveva testimoniare personalmente la sua fede nel Vangelo vivendo come quegli ultimi cui si rivolge costantemente, e scelse una vita sempre a contatto con il popolo, decidendo di non accettare una nuova sede proposta dal governo, ma di abitare in una piccola stanza vicino a un ospedale dove giacevano malati terminali.
Quello che risalta oggi ai nostri occhi, gli occhi di chi ha visto rovesciarsi sull’Occidente una delle più gravi crisi economiche della storia, è questa coerenza e nel contempo questa sfida contro la supposta felicità dell’avere e del possesso.
Un esempio che – al di là delle polemiche ideologiche che hanno talvolta accompagnato la drammatica questione Romero – dovrebbe pur dire qualcosa a coloro che navigano nello spreco mentre molti non arrivano alla fine del mese.