Rieti e la cultura

In che modo la dimensione culturale determina i destini di una città come Rieti? Dove sono – e chi sono – “quelli che pensano”, e con quali strumenti, modalità e agenti avviene la circolazione delle idee? A Rieti c’è spazio per il dialogo, lo spirito laico di ricerca, il coraggio del dubbio? O tutto è soffocato da un’opprimente omologazione?

Da qualche tempo «Frontiera» guarda con crescente attenzione al rapporto tra Rieti e la cultura. Non tanto per fare eco ai vari spettacoli che si susseguono, quanto per indagare su frammenti di realtà che raccontino qualcosa della situazione cittadina. Con l’idea che a poco a poco possa emergere una mappa “culturale” della città, che aiuti a muoversi nelle sue pieghe. Quasi con la voglia di rendere una sorta di «servizio pubblico» ai nostri lettori.

Un’inchiesta che numero dopo numero si propone un dialogo con operatori culturali, “intellettuali”, professori, librai, artisti, ma anche preti, artigiani, associazioni, sindacati, politici, e che si accompagna ad un esercizio di critica rivolto al panorama sociale, alle istituzioni, al mercato. E pure ai media, allo stile dell’informazione, alla cronica mancanza di originalità.

Un lavoro dal quale vanno via via emergendo aree di indagine ricorrenti: il problema dei luoghi della cultura, la domanda su quanto sia aperta, inclusiva, moderna la città, e la ricognizione – dall’altra parte – dei limiti e delle resistenze a «prendere iniziative».

Da questa indagine emergono talvolta insoddisfazioni e malcontenti. In certi casi si riconoscono vere e proprie linee di frattura, anche se non sempre le distinzioni sono nette e facili da fare. Così, alla coppia dialettica tra apertura e chiusura cittadina, si affiancano altri contrasti come quello tra l’autonomia e gratuità di alcune iniziative e gli eventi ben finanziati e determinati dall’alto. Ma si assiste anche alla complessa dicotomia tra cultura ed erudizione, o all’equivoco tra folclore e saggezza popolare.

Il tutto sullo sfondo di una opinione pubblica a sua volta contraddittoria, che vede interessanti esperienze orizzontali di scambio e interazione, contrapporsi al dominio dall’alto dell’ideologia delle merci e del mercato in un tentativo continuo, testardo, e sempre incerto di autonomia.

Uno sforzo che è costretto a mettere continuamente in conto anche il degrado del quartiere e le mutazioni – quando non il disfacimento – della famiglia, quali simboli angosciosi di una comunità sempre più assente.

Viene allora la domanda su quali possano essere oggi i luoghi d’incontro, e sul modo in cui in città si trasmettono i saperi. Un tema che finisce necessariamente con l’interpellare le istituzioni e la stessa Chiesa locale, soprattutto rispetto al rapporto tra le generazioni, alle esperienze di formazione, ai modi e le opportunità che i reatini hanno di mettere il naso fuori le mura.

Come si forma il nostro modo di pensare non è un tema di poco conto. Ne deriva la nostra identità, l’approccio verso i problemi del lavoro, la capacità di coltivare l’intelligenza.

Sappiamo metterla in comune? Siamo capaci di lavorare come una sorta di cervello collettivo per rispondere ai problemi e alle carenze della città? O anche le più interessanti proposte culturali sono caratterizzate da una certa autoreferenzialità?

Queste sembrano le domande cui rispondere per capirci qualcosa e lavorare ad ogni eventuale miglioramento. Un esercizio quanto mai necessario in un tempo in cui l’azione pubblica sembra sempre meno in grado di promuovere, integrare, progettare. In un tempo in cui si rischia di chiudere un conservatorio non certo per mancanza di iscritti. In un tempo in cui ci si sente forse come figli di una sconfitta, o peggio di un’implosione. E il subalterno bisogno di ricorrere al “moderno mecenate” unito alla nostalgia del “tempo che fu” caratterizza non solo chi sta peggio degli altri, ma anche la stessa classe dirigente.

Per fortuna non manca chi ancora vuole unire, resistere, capire, riprendersi, ritrovare i temi e la forza per una nuova stagione. Uno sforzo da fare nel rispetto delle identità, ma con un’apertura al dialogo arricchita da un laico spirito di ricerca. E non senza il coraggio del dubbio e la consapevolezza che non è facile orientarsi in una società fluida, nella quale sembra riuscire ad avere ragione soltanto il mercato.