Per una città amica dei bambini

Guardare all’infanzia è tra i modi più sicuri per capire lo stato di salute di una città. Anche una piccola come Rieti non fa differenza.

C’era una volta una città in cui i bambini erano liberi di muoversi, di andare dove volevano. Erano loro, così piccoli, a dare misura alla città, alle strade, alle piazze. La loro presenza giustificava gli spazi, gli dava vita. Nessuno si preoccupava se tiravano calci ai palloni, correvano, strillavano o saltavano in bicicletta. Tutti mettevano nel conto qualche danno: i bambini giocando in casa finiscono spesso per rompere qualcosa e la città era casa loro. Era lì per farli crescere, incontrare e scoprire. Come in casa erano al sicuro perché protetti da una vigilanza discreta e pacifica, svolta per mutua abitudine da genitori e nonni, vicini e passanti.

Poi, poco per volta, le cose sono cambiate. All’inizio non ci si accorgeva di quello che stava accadendo. In tanti non se ne accorgono neanche oggi. Da luogo da esplorare e nel quale apprendere attraverso l’esperienza, la città si è trasformata in un mondo da cui difendersi, in un luogo estraneo e inospitale.

Oggi i bambini sono quasi spariti dalle strade e dalle piazze. La città è diventata inabitabile, se non invivibile, per i più piccoli. Sporcizia, automobili e riqualificazioni insensate hanno cambiato la sua natura originale di luogo della condivisione e della relazione. I suoi spazi sono pubblici solo nominalmente, essendo in verità divenuti una terra di conquista, da presidiare. La città è divenuta l’ambiente in cui l’auto ha la meglio sul pedone, dove parcheggiare è più importante che discorrere, dove l’aspetto commerciale viene prima di ogni altro. Una tendenza alla riduzione della molteplicità degli usi che talvolta ha il sapore di una “militarizzazione” più o meno palese.

Questo processo di privatizzazione, talvolta nascosto, talvolta esplicitato in qualche targa ottonata, si accompagna al farsi avanti di servizi che forniscono a pagamento quello che prima la città sapeva offrire da sola, gratuitamente. La nascita e lo sviluppo delle ludoteche, il proliferare di centri sportivi, certi utilizzi dei campi scuola e la presenza di giochi a pagamento pure nei parchi pubblici, trasformano in commercio il tempo dell’infanzia. È una pratica che corrisponde ad un impoverimento complessivo: non solo del portafoglio, ma sopratutto dell’esperienza dei più piccoli, che finiscono per incontrarsi solo in luoghi deputati e ad apprendere che perfino il tempo del gioco infantile si deve pagare.

È al centro di questa ideologia che vogliamo tenere i bambini? La loro condizione è un indicatore particolarmente sensibile per misurare la qualità di una città. Una città amica dei bambini è a misura di tutti. Ma gli amici non si pagano: se i più piccoli sono costretti a pagare i loro spazi c’è qualcosa che non va. Vuol dire che abbiamo organizzato i luoghi in regime di scarsità. Il risultato di questa sottrazione è l’infanzia rinchiusa in “scatole di cemento” – la definizione è di don Dario Ciani – ovvero in casa, a scuola, in palestra, in piscina, nel centro commerciale, nella sala giochi, ecc.

In questo modo, non solo i bambini non conoscono più la città, ma nemmeno la città li riconosce più. Resi estranei al loro spazio vitale, quando da adolescenti ricompaiono nella scena urbana, capita che per le intemperanze dell’età vengano considerati una minaccia alla sicurezza o un attentato al patrimonio. In realtà spesso hanno difficoltà a conoscere e a praticare quei diritti e quei doveri che fanno cittadinanza perché non hanno mai avuto la possibilità di sperimentarli, esercitarli e comprenderli. Esclusi in origine dalla città, come possono diventare cittadini?

Lo spazio pubblico è un incubatore primario di vitalità e democrazia. La partecipazione alla vita di strada è uno dei processi fondamentali attraverso cui la città produce se stessa, la propria novità, le proprie idee, le proprie imprese. Il restringimento dello spazio condiviso, l’averne accentuato oltre misura l’aspetto commerciale, fa parte di quel complesso di fenomeni che ha reso povera la politica e asfittica la realtà cittadina.

Si può dire che queste cose dipendono dall’economia generale, dalla “vita che è cambiata”, dall’imporsi delle esigenze dei tempi che corrono. Va bene, ma dobbiamo per forza subirli e accettarli? Davvero non è possibile metterli in discussione? La società non è un fattore dato, da accogliere acriticamente, da prendere per quello che è. Il miglioramento non può certo passare dal conformismo esasperato, dall’adeguarsi al peggio.

La deriva verso impostazioni dannose va contrastata. Rispetto al rapporto tra bambini e città allora, le azioni che rovesciano la logica dell’uso privato degli spazi pubblici sono le benvenute. Solo quando avremo restituito ai bambini e la possibilità di esserne i padroni, riavremo una città felice, in cui tutti hanno un posto e un ruolo. Sarà il tempo in cui lo spazio pubblico verrà nuovamente riconosciuto quale risorsa insostituibile nella educazione, nella crescita, nella costruzione della convivenza civile.

Sono cose che richiedono fatica e intelligenza, molto più dei festival e delle super sagre da strapaese, ma che tornano davvero a vantaggio di tutti.