Un anno di crisi

Guardando all’anno che sta per finire, cercando qualche filo per ricucire i frammenti di cose accadute o mezzo accadute.

Mancano pochi giorni alla fine del 2011. È stato un anno molto complesso, ricco di implicazioni per il futuro, di bivi, di scelte. È stato, non a caso, un anno di referendum. Il 2011 si è aperto con quello imposto dalla FIAT ai lavoratori. Hanno accettato un contratto di lavoro al ribasso in cambio di investimenti che ancora non si vedono. Poi c’è stato il voto sul nucleare e sui servizi pubblici locali, l’acqua soprattutto. Ha dato un’idea di cosa pensa il popolo della privatizzazione della cosa pubblica. C’è stata anche una consultazione negata. In Grecia si doveva votare sui rimedi al debito sovrano. Non se n’è fatto nulla. In cambio i greci hanno avuto un governo tecnico, di crisi, tipo il nostro di adesso.

“Crisi”, del resto, è la parola chiave degli ultimi 365 giorni. Crisi economica innanzitutto. Tra spread, prestatori di ultima istanza e asse “Merkel-Sarkozy”, anche la “casalinga di Voghera” ha dovuto farsi fine economista. Discorrere al bar di problemi geopolicitici e finanziari, oggi, è un comportamento niente affatto eccentrico. Pare quasi che con le difficoltà si stia facendo avanti anche un barlume di consapevolezza.

Non a caso il 2011 è stato l’anno degli “indignati” e dei “movimenti”. Peccato che tra velature radical chic e tentazioni di guerriglia urbana, quanto c’è di buono stenti ancora ad emergere. Si punta troppo sulla sola tecnica (riciclo, energie verdi, “buone pratiche”), e lo spirito umano rimane sempre più indietro.

Più dura, comunque, la realtà che ci aspetta fuori dalla porta. La guerra in Libia, la “primavera araba” mezzo abortita, la mattanza ancora in corso in Siria, sono gli aspetti più drammatici di una voglia di cambiamento globale. Di solito, però, rimane sospesa nell’universo virtuale, dentro i cavi e le onde di internet e cellulari.

Rivoluzioni e indignazioni, spontanee o meno che siano, non riescono a farsi portatrici di una reale alternativa. Manca un progetto politico strutturato da proporre, manca una idea di uomo da realizzare. Accade allora che quando riescono ad abbattere il vecchio, privi come sono di strumenti e idee costruttive, le rivoluzioni, i movimenti e gli indignati lascino il vuoto. E questo è subito riempito da chi ha mezzi e scopi chiari, abitudine al controllo, soluzioni “chiavi in mano”.

La Libia degli insorti, ad esempio, in meno di un anno è diventata una neocolonia, lottizzata dalle multinazionali occidentali. Allo stesso destino pare essere indirizzata tutta l’area. Né ci si può aspettare nulla di diverso in un mondo in cui l’orizzonte democratico si risolve nella libertà del mercato. Non che la capacità degli uomini di interagire e scambiare sia una cosa cattiva. Ma la libertà umana dovrebbe servire, per l’appunto, allo sviluppo dell’uomo, e non al mercato in quanto tale.

Rabindranath Tagore, nel 1917 prendeva sconsolatamente nota di come «L’uomo morale, l’uomo compiuto, sta sempre più cedendo il passo all’uomo mercante, l’uomo dall’orizzonte limitato». Oggi che il trapasso dell’uomo morale pare definitivo e il mercante è l’unico tipo umano in circolazione, la vera rivoluzione, l’unica necessaria, quella da cui discenderebbero tutte le altre, è ancora e soltanto quella culturale.

Auguriamocela per l’anno nuovo. Magari, invece dell’iPad, sotto l’albero potremmo provare a desiderare una scuola meno centrata sulla formazione di lavoratori qualificati e obbedienti. Sarebbe meglio tornare ad averne una maggiormente attenta a coltivare l’arte e la letteratura. Sono saperi che magari non attraggono gli investirori, però rafforzano le virtù del cittadino. Oggi servono come non mai.

E se questo regalo costa troppo alle élite di governo, se non ce lo vogliono fare, arrangiamoci da soli. In fondo, per cambiare le cose bisogna lavorare con la propria quotidianità, facendo leva sulle proprie scelte. Finora, del resto, aspettando l’arrivo di qualche nuovo Messia (tra “unti dal Signore” e professori di gran fama), siamo andati sempre peggio.