Poco alla volta un po’ tutti i reatini stanno prendendo confidenza con alcuni strani oggetti. Compaiono inattesi come i numeri primi in matematica, senza che una regola aiuti a prevedere dove sarà il successivo. In realtà un teorema c’è ed è semplice: spuntano dove un albero ha ceduto al maltempo, all’età o a una malattia. Dai mozziconi dei tronchi, infatti, Felice Rufini sta ricavando sculture. Un gesto libero, garantito da un regolamento comunale. Ma la burocrazia che diventa forza positiva e il volontariato civico in questa storia sono il meno.
Bisogno di contatto con il pubblico
Più interessante è l’intuizione. Dove normalmente albergano il disordine e l’incuria, in situazioni che suscitano fastidio o una corazzata indifferenza, lo scultore ribalta il tavolo e si mostra capace di intravedere una possibilità. La creatività di Rufini è sempre alla ricerca di punti di contatto con il pubblico, di occasioni per suscitare conversazioni sull’insopprimibile esigenza dello scultore di scovare forme nascoste nella materia e manifestare, attraverso di esse, un pensiero, una visione, un’idea.
Una lunga ricerca
Nato nel 1958 a Cittaducale, l’artista è ben noto in città, non solo per la sua ricerca creativa, ma per saper padroneggiare anche l’arte culinaria nel suo popolare ristorante in centro. Le sue opere inseguono qualcosa di primordiale: il piacere di modellare le cose, il gusto di scovare i volumi, la sensibilità verso i vuoti e i pieni. Nella sua ricerca, le forme non sono mai didascaliche, ma neppure pienamente astratte. Pur non esplorando un approccio figurativo, le sue sculture rimandano sempre a qualcosa di concreto, alludono a significati, persone, eventi che si percepiscono reali. Solo che il mondo non si presenta per come appare nell’immediato, ma in suoi aspetti nascosti, indagati dall’intelligenza e dalla sensibilità dell’artista.
Felice Rufini ha esposto le sue opere in svariate mostre sul territorio nazionale, ottenendo significativi riconoscimenti. Ma in una città come Rieti, un po’ avara di occasioni e luoghi per l’arte, l’intuizione di questi mesi l’ha portato a modellare tronchi morti, ma ancora piantati in terra. Un esperimento che può piacere o meno nei suoi risultati e può essere più o meno compreso nello stile. Ma il giudizio estetico verrebbe dopo e richiederebbe qualcosa di più del mi piace (o non mi piace) che i social ci hanno abituato a esprimere con banalità.
Una piccola lezione
Prima ci sarebbe a riconoscere la capacità di creare valore a partire da quel che c’è, soprattutto non avendo nulla. Per dire che qualcosa – anche nella più disordinata e frastornata delle città – ce l’abbiamo sempre: le nostre idee, le nostre mani, la nostra intelligenza. Solo messo in conto questo potremo interrogarci sul rapporto dell’arte coi luoghi e dei luoghi con l’arte. E magari chiederci come noi viviamo la città, se la indossiamo bene o male, se siamo altrettanto capaci di metterci in conversazione con essa, se siamo altrettanto bravi ad evidenziare il suo potenziale.
Al di là del conformismo
Le sculture di Rufini sono quasi selvagge. I suoi tronchi scolpiti con la motosega, anneriti con la fiamma, hanno un sapore primitivo, portano alla mente figure arcaiche. E in qualche modo aiutano a concepire un racconto della città meno conformista. Accettano il confronto e spingono ciascuno a provare sé stesso, a dichiarare il proprio livello senza temere il giudizio. Dicono che gli spazi e le opere come le persone hanno una storia e in base a questa un valore. Ma non sempre siamo abbastanza svegli o intelligenti da capirlo.
Educare l’occhio
A volte, a giocare contro di noi è l’abitudine. La bruttezza e l’incuria offendono e, quasi per difesa, ad un certo punto non le vediamo più. La percezione si abitua, l’occhio sorvola e smettiamo di esigere un miglioramento. Qualcuno brontola, ma disperiamo nell’offerta di novità e opportunità. E allora è bene che qualcuno spezzi l’assuefazione con un gesto apparentemente insensato, inserendo elementi che possono addirittura disturbare, vuoi per l’originalità, vuoi perché costringono a guardare di nuovo e forse a farsi qualche domanda su come stiamo al mondo, su come vediamo, su cosa pensiamo.
Questa volta è stato il viscerale bisogno di espressione di un artista che, intervenendo su dettagli trascurati, ha dato forma all’inaspettato, ha trasceso la barriera dell’ordinario. Le sue mani hanno sempre incrociato la fredda solidità della pietra e la calda nostalgia del legno, ma il suo estro ingenuo e insieme intelligente questa volta ha esercitato la sfida di plasmare non solo la materia ma, almeno un poco, anche lo spazio che la circonda.
Le sculture di Rufini non sono solo ornamenti urbani, ma involontarie lezioni su come trasformare gli scarti in tesori, offrendo una prospettiva nuova e feconda sul paesaggio quotidiano. La sua capacità di rintracciare la bellezza in ciò che è danneggiato e decadente fa pensare. Il suo atto di trasformazione artistica è una metafora per la città da ragionare, un richiamo a cogliere il possibile nell’improbabile. E ricordare che la bellezza e la speranza non si trovano solo negli angoli più luminosi della vita, ma spesso vanno ricavate, plasmate e risvegliate dalle mani di chi ha la visione e il coraggio di vederle.