La crisi di mezza età

In questo tempo di crisi trovare lavoro all’età di quarant’anni diventa sempre più difficile.

E non solo: chi sta sopra i 35 anni, ma sotto ai 50, si sente infatti come sospeso sul vuoto. Pare escluso e mortificato da ogni riforma. Sono giovani, ma non abbastanza da raccogliere gli incentivi all’assunzione o all’intrapresa. Abitano gli anni dei bilanci ed è normale che guardino alla pensione, ma il percorso contributivo pare incerto e inconcludente. Gli scorre sotto gli occhi il tramonto del mondo che erano preparati a vivere, ma senza che il futuro si riveli con un profilo definito, per brutto che sia.

Le poche aziende che offrono lavoro hanno esigenze paradossali. Cercano dipendenti giovani ma qualificati, competenti ma non vecchi. Di fatto il mercato del lavoro non riesce ad integrare molti disoccupati preparati e competenti solo perché hanno superato i 40. Non solo il lavoro è poco, ma la possibilità di trovarlo diminuisce con l’innalzamento dell’età. L’epoca non aiuta di certo e in città si sente ogni giorno di una nuova crisi occupazionale. E quando si viene licenziati non c’è possibilità di rientro. Una fascia rilevante della popolazione è semplicemente tagliata fuori. Punto.

Uno dei temi centrali del prossimo futuro sarà il modo in cui queste persone rielaboreranno la propria condizione costruendo nuove identità e nuovi percorsi. Ma non si tratta semplicemente di sapersi adattare al mondo che cambia. La responsabilità verso le generazioni più giovani, quelle dei loro figli, richiede piuttosto un rinnovamento di prospettiva. È davvero inevitabile quello che sta accadendo? Possibile che non ci siano alternative alla progressiva riduzione di sicurezze che stiamo vivendo? O piuttosto è un certo modo di intendere le relazioni, l’economia, i bisogni, che porta con sé certe conseguenze?

Sono dubbi che iniziano ad affacciarsi nella coscienza di tanti. Alcuni cominciano a decodificare i tratti dell’imbroglio che demolisce la dimensione di solidarietà, di sussistenza, di realizzazione nel lavoro in favore di una competitività e di una crescita fini a se stesse. Ci riconoscono il motore che allarga la forbice sociale, aumenta l’ingiustizia, favorisce nuove forme di schiavitù. Sono forze potenti, seduttive, che dalla loro hanno un linguaggio convincente, diffuso, pervasivo. Parole che si sono a poco a poco sostituite alla lingua madre della società, diventata incapace di esprimere i bisogni veri e i veri obiettivi.

Privata di un linguaggio anche la protesta si è fatta un balbettio poco credibile. Talvolta si risolve nelle prove di forza che riempiono le cronache di questi giorni. Chi oggi è nel mezzo del proprio cammino vive l’età mediana tra il mondo della tradizione, con i suoi valori e il suo carico di umanità, e quello che la tecnica sta ridisegnando a sua immagine, imponendo la rinuncia a tutto il resto. La mezza età di oggi è l’esser sospesi tra generazioni cui è negata la continuità delle aspettative, dei bisogni, dei diritti. Ai trentenni e i quarantenni pare di aver sfiorato entrambe le sponde di due terre che si allontanano, per finire ad abitare il vuoto che le stacca.

Non si può tornare indietro, è ovvio. Sui quarantenni ricade il compito di elaborare un ponte, un passaggio, un guado; di battere il terreno per tracciare un sentiero sicuro. Si tratta di prendere in mano le redini della politica, dell’economia, della famiglia, di rielaborare valori e necessità. Forse è un compito per cui non sono attrezzati, o forse si stanno attrezzando.