La casa dice tutto dell’uomo e del suo tempo

Giulia Cogoli, esperta in comunicazione culturale, ideatrice e direttrice dei “Dialoghi sull’uomo. Festival di antropologia contemporanea”. Le voci: gli antropologi Francesco Remoti e Marco Aime, l’ex calciatore Lilliam Thuram, padre Renato Kizito Sesana, il designer Alessandro Mendini.

Si svolge dal 22 al 24 maggio, a Pistoia, la sesta edizione di “Dialoghi sull’uomo. Festival di antropologia contemporanea”, promosso dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia e dal Comune di Pistoia. Questa edizione ha per tema “Le case dell’uomo. Abitare il mondo”, un’importante chiave di lettura antropologica per riflettere, insieme ad architetti, designer, filosofi, scienziati ed antropologi, su cosa sia la “casa” in ogni sua accezione e su come stia cambiando il nostro modo di “fare casa”. Ne abbiamo parlato con Giulia Cogoli, esperta in comunicazione culturale, ideatrice e direttrice della manifestazione di Pistoia.

“Le case dell’uomo. Abitare il mondo”, un argomento di grande valenza antropologica. Quali le motivazioni di questa scelta per il tema del prossimo “Festival di antropologia contemporanea” di Pistoia?
“Nelle sue prime cinque edizioni, il festival ‘Dialoghi sull’uomo’ ha già potuto affrontare importanti temi antropologici quali l’identità, il corpo, il viaggio, il dono, la condivisione. Quest’anno, ci è sembrato il momento giusto per soffermarci a trattare il tema della casa, vista la sua ampia e articolata valenza antropologica. Col contributo di architetti, designer, filosofi, scienziati e antropologi rifletteremo quindi sul tema ‘casa’ declinato in tutte le sue accezioni, un tema che ha molto a che fare con la società e con la famiglia in genere, ma anche con i forti cambiamenti sociali che stanno connotando l’attuale momento storico”.

Globalizzazione, nuove forme di comunicazione, movimenti migratori di massa. Che senso dare, nel contesto odierno, all’ “abitare il mondo”?
“Come spiegherà bene l’antropologo Francesco Remoti, che terrà la lectio inaugurale del convegno, ‘abitare’ è un verbo che in realtà sintetizza due forze opposte: una ‘centripeta’ e una ‘centrifuga’. Da una parte, abitare indica stanzialità, costruire una dimora, un rifugio, andare verso l’intimità, la protezione; dall’altra parte, significa muoversi, viaggiare, abbandonare la casa, uscire per incontrare gli altri e nuovi territori. Ma vuol dire anche ‘aprire porte e finestre’, quindi accogliere e convivere. Dunque, una valenza ampia e di sicuro interesse sotto il profilo antropologico”.

Dunque, “porta chiusa” o “porta aperta” come modello per la nostra società attuale?
“Proprio in questi giorni di dolorosissima attualità non possiamo non riflettere – noi lo faremo con l’antropologo Marco Aime – sul tema di chi la casa non l’ha più, e non perché è un viandante che ha scelto di viaggiare, ma perché ha dovuto abbandonarla per motivi feroci, violenti e urgentissimi. Così, abbiamo davanti ai nostri occhi e alla nostra coscienza non dei viandanti turisti, ma delle persone stravolte da una realtà che le ha sovrastate. Di fronte a loro, possiamo tenere la ‘porta chiusa’? È urgente dare una risposta accogliente. Anche questi interrogativi riguardano l’abitare. Abitare vuol dire anche ‘co-abitare’, cioè abitare con qualcuno che è ‘altro’ da noi, per motivi religiosi, culturali, per origini, lingua, ecc…, una realtà sempre più presente in quest’epoca di globalizzazione, indipendentemente dai flussi di migrazioni lavorative. A riflettere su quest’aspetto ci aiuterà un personaggio molto noto, Lilliam Thuram, ex calciatore, da decenni impegnato su questo fronte in Francia con la sua fondazione che lotta contro i razzismi e a favore della coabitazione tra i popoli. Ma abitare comprende anche ‘l’abitare ai margini’, ai margini della ricchezza, della cultura, delle città (con le varie periferie degradate). E non si tratta di una forma ‘inferiore’, perché anche lì – come ci dirà padre Renato Kizito Sesana che affronterà il tema – talvolta nascono nuove forme di eccellenza umana e di leadership”.

“Abitare” è anche una delle 5 vie di riflessione proposte al prossimo convegno ecclesiale di Firenze, in novembre, che parlerà di “nuovo umanesimo”. Quale relazione vede tra “abitare” e “vivere relazioni solidali”?
“Per gli orientamenti del nostro progetto, sicuramente una relazione molto stretta che vogliamo sottolineare con decisione durante il convegno. Infatti, abbiamo programmato più di un incontro su questo aspetto e programmato anche la pubblicazione di un libro a tema, che troverà posto nella nostra collana pubblicata da Utet”.

“Abitare” significa anche identità culturale?
“Indubbiamente l’abitare lascia trasparire chi noi siamo. Su questo rifletteremo principalmente con gli architetti e i designer – ad esempio, col grande designer Alessandro Mendini (con la relazione “la casa emozionale”). La casa tanto più è tecnologica tanto meno parla di noi; al contrario, tanto più si avvicina ai linguaggi, ai colori, ai simboli, ai materiali che noi abbiamo scelto, tanto più diventa espressione delle nostre emozioni, della nostra psiche, del nostro pensiero. Insomma, rivela in qualche modo il nostro percorso e chi noi siamo”.