Il vescovo: la carità non è l’assistenza, ma il fiorire dell’umano

È da una “carità in crisi di identità” che è partito il discorso del vescovo Pompili in occasione della presentazione del progetto “Non sei solo” del Consultorio diocesano. Una crisi che cresce ad esempio nella critica marxistista, che ha «finito per considerarla un inappropriato ed ipocrita sostituto della giustizia, dato che la carità presenterebbe come libera e benevola elargizione ai poveri ciò che dovrebbe essere dato loro per giustizia», quando invece è un «vivere l’amore e in questo modo far entrare la luce di Dio nel mondo» (Benedetto XVI, DCE, 39).

Un equivoco per uscire dal quale don Domenico ha proposto di ripartire dal linguaggio, dalla «parola caritas che traduce il greco agape del Nuovo Testamento, che si distingue nettamente dall’eros pagano greco, a sua volta tradotto in latino con amor. Per i greci il logos è superiore all’eros mentre per i cristiani l’agape è superiore al logos e – cosa assolutamente inedita – può essere attribuito a Dio, come attesta in forma insuperabile la I lettera di Giovanni».

La novità del cristianesimo, infatti, «consiste proprio nel passaggio dall’eros all’agape, cioè nel rovesciamento del movimento: non più dall’inferiore verso il superiore, ma appunto nel movimento inverso dal superiore verso l’inferiore».

«Ciò – ha aggiunto il vescovo – ha avuto come effetto una profonda trasformazione dell’idea stessa di Dio e del suo rapporto con il mondo e l’uomo. L’identificazione di Dio come agape-caritas modifica di colpo la concezione di Dio prevalente nell’immaginario collettivo e neutralizza definitivamente l’armamentario ideologico dell’ateismo militante che vede nell’esistenza di Dio un attentato alla libertà dell’uomo».

Si tratta allora di «cogliere le conseguenze di una tale rivoluzione nell’immagine di Dio che è amore. Infatti il cristianesimo ci svela che l’uomo è cioè che trova la direzione e scopre il suo senso perché sentendosi amato è capace di amare, rompendo il cerchio dell’utile e aprendosi alla gratuità del dono».

Ecco allora che la carità può essere letta «come la fioritura della propria originaria capacità d’amare, il dispiegamento armonioso del proprio essere amanti» in contrasto «con un elemento qualificante del pensiero occidentale, che crede solo a ciò che è “fatto da sé”, al mito del self made man». Una visione che dimentica come siamo tutti debitori di un «amore giunto da altrove» a partire dal fatto di essere «generati nell’amore da altri» e che esclude «tutti quegli aspetti di sana passività e di ricettività accogliente che costruiscono l’umano».

Va dunque ribaltata la visione per cui la carità sembrerebbe esclusa nel tempo della «razionalizzazione totale della vita associata», salvo farne «una funzione subalterna e temporanea, valida solo fino a quando il progresso finirà per renderla superflua».

In realtà, ha spiegato don Domenico, «ammesso e non concesso che sia possibile una convivenza sociale in cui a ciascuno fosse dato tutto e solo quanto gli spetta, secondo un calcolo razionale di perfetta uguaglianza, tutto questo non sarebbe ancora un mondo veramente umano».

Perché «la fraternità precede l’uguaglianza e la libertà. Non si spiegherebbero diversamente alcune cose come il dono e il perdono che sono razionalmente incomprensibili e che proprio per questo attestano un superamento del semplice ordinamento razionale».

Dal vescovo arriva quindi l’invito a non pensare l’azione caritativa come una semplice variante dell’organizzazione assistenziale: «La carità è il principio fondante il cristianesimo, ma è anche la condizione di possibilità perché l’umanità sopravviva a se stessa. La capacità di futuro dei cristiani è così intrecciata al futuro del mondo perché l’agape di Dio abbraccia gli uomini e le donne di ogni tempo e di ogni cultura. Infatti “il vilipendio dell’amore è vilipendio di Dio e dell’uomo, è il tentativo di fare a meno di Dio. Di conseguenza, la miglior difesa di Dio e dell’uomo consiste proprio nell’amore”. E l’amore torna a brillare come la strada che conduce a Dio».