Il lavoro: da necessità a interesse

“Abbiamo tutti lo stesso problema” questo lo slogan affisso sabato 16 novembre nei negozi del centro che aderivano alla manifestazione organizzata dalla diocesi. Partita alle 9:30 da Piazza Cavour è arrivata a Piazza Cesare Battisti, e si è conclusa in cattedrale con la celebrazione della messa da parte del vescovo. Nella sua omelia ha parlato di “santificazione del lavoro” nel senso di purificazione, auspicando che dal lavoro pulito possa nascere nuovo lavoro. Noi proveremo a chiarificare il concetto e la prospettiva che ne abbiamo in un periodo di disoccupazione diffusa.

Come in tutti i fenomeni sociali, la comprensione che se ne ha è determinante per l’evoluzione del fenomeno stesso. Se la “crisi lavorativa” diventa l’unico metro di valutazione nel giudicare lavoratori o candidati non emergeranno mai capacità e potenzialità oggi inespresse. Accettare qualsiasi tipo d’impiego o retribuzione, scegliere qualifiche maggiormente spendibili a scapito delle aspirazioni, sacrificare il presente senza ricevere in cambio speranza per il futuro; sono tutti esempi delle forzature che la congiuntura impone alle nostre coscienze prima ancora che alle nostre vite.

Per usare delle metafore, sembra che l’unica fabbrica che produce a pieno ritmo sia quella dei cassetti in cui tener chiusi a chiave i sogni. È come se le competenze e le energie di intere generazioni finissero in una gigantesca discarica a cielo aperto, nascosta sotto un velo di falsa necessità.

Lavoro come interesse. Questa è la prospettiva che innescherebbe un circuito virtuoso tra i vari operatori dell’economia. Innanzi tutto è un interesse personale, privato, diremmo perfino egoistico, ma sul lavoro si fonda la dignità dell’uomo, come ha sottolineato il papa nel viaggio in Sardegna, ed è il primo presupposto della serenità, che possiamo definire forma terrena della felicità.

In secondo luogo è un interesse per l’azienda, che vive del lavoro di dipendenti e manager. Ancor più in Italia, dove solo l’eccellenza artigianale e la preparazione professionale rendono le imprese competitive nel mercato globale. E poi per le comunità territoriali, in cui solo un tessuto sociale attivo permette di evitare il degrado così spesso denunciato. Andando ancora oltre possiamo pensare alle nazioni e al concetto astratto di lavoro, una delle colonne della filosofia e dell’economia.

Allargare questo interesse agli altri. Ecco il movimento fondamentale che porterebbe a unire gli obiettivi di tutti verso lo scopo comune. E questo interessamento va tradotto in azioni e manifestazioni, fatti e parole per il lavoro proprio e altrui. Ovviamente dovrebbero prendervi parte anche imprenditori e politici, è dalla classe dirigente che può venire un contributo decisivo. Ma tutto parte dal singolo lavoratore che deve rialzare la testa proprio nel mezzo della crisi.

Qualcuno penserà che stiamo facendo soltanto un vuoto discorso sulle intenzioni. Ci sono tuttavia almeno due buone ragioni per farlo. La prima è che raccontare la situazione aiuta a far capire e a sensibilizzare, e senza una visione d’insieme ciò diventa impossibile. In sostanza è quello che si è sempre fatto, ad esempio con le manifestazioni sindacali. Condividendo aspettative e delusioni si coinvolge ognuno nella lotta di tutti.

Il secondo motivo è che descrivendo la situazione si può dare forma al senso d’impotenza e ritrovare le priorità su cui concentrarsi. Nella nostra analogia lavoro-interesse la disoccupazione diventa disinteresse, ovvero indifferenza, e rilevare questo ponte tra significati ci porta ad affrontare più consapevolmente le difficoltà.

Concludendo dobbiamo confessare di aver probabilmente abusato del termine “lavoro”, anche per non improvvisare inutili giri di parole, ma l’intento era proprio migliorare l’uso della parola. Chi invece deve occuparsi di lavoro reale finisce in genere per cadere nello stesso errore con conseguenze molto peggiori. Per cui mettiamoci a lavorare ma basta “lavoro”.

di Caterina D’Ippoliti e Samuele Paolucci