Prendersi cura dei malati e dei poveri non è un optional o qualcosa che si possa facilmente delegare ad altri. È frutto della fede, la quale è insieme verità e carità. Non si può dare l’una senza l’altra. Il tempo impiegato con il malato non è perso, seppure a volte sembra monotono e risulta pesante. È opportunità preziosa per vivere appieno.
L’esperienza della malattia e della sofferenza, sia fisica che spirituale, accompagnano l’uomo da sempre. Quello che oggi è cambiato è il modo di porsi dinnanzi ad esse. Il moderno concetto di “qualità della vita” induce a ritenere che alcune vite gravemente affette da malattie non sarebbero degne di essere vissute. Sì, la qualità della vita risulterebbe dalla valutazione di parametri puramente fisici: salute, efficienza, giovinezza, produttività, etc. Papa Francesco nel suo recente Messaggio per la XXIII Giornata Mondiale del Malato non teme di chiamare “grande menzogna” la politica di chi scarta alcune vite perché non sarebbero più di qualità.
Accanto a questa posizione che San Giovanni Paolo II – proprio colui che ha istituito la Giornata Mondiale – chiamava “cultura di morte” ce ne è un’altra: quella di chi comprende che la vita nella malattia è sempre umana e decide di accompagnare le sorelle e i fratelli che dalla malattia sono stati visitati. Si tratta di uno sguardo, frutto della sapienza del cuore (sapientia cordis), che conduce i sani ad amare e a confortare i malati. Questa sapienza non è una conoscenza astratta, ma assolutamente concreta. Un atteggiamento infuso dallo Spirito Santo nella mente e nel cuore, così da aprirsi alla sofferenza dei fratelli e riconoscere in essi Cristo vivo e sofferente.
La sapienza del cuore conduce a servire il fratello al punto da essere “occhi per il cieco” e “piedi per lo zoppo” (Gb 29,15). Tutto questo è assolutamente vero e concreto. “Quanti cristiani – ricorda il Santo Padre – testimoniano non con le parole, ma con la loro vita radicata in una fede genuina, di essere occhi per il cieco e piedi per lo zoppo. Persone che stanno vicino ai malati, che hanno bisogno di un’assistenza continua, di un aiuto per lavarsi, per vestirsi, per nutrirsi”. Un servizio che può diventare “faticoso e pesante” quando si prolunga nel tempo. Si pensi, ad esempio, a quelle frequenti malattie neuro degenerative, che mettono duramente alla prova non solo chi vi è affetto, ma anche i famigliari e i vicini che vivono con lui. Il Papa ne è pienamente consapevole: “è relativamente facile servire per qualche giorno, ma è difficile accudire una persona per mesi o addirittura per anni, anche quando essa non è più in grado di ringraziare”.
Ecco, allora che l’assistenza prolungata ai malati può essere un “grande cammino di santificazione”. Chi lo intraprende diviene immagine viva di Cristo Signore, il quale non è venuto nel mondo per farsi servire, ma per servire i fratelli (cfr. Mt 20,28) e resta in mezzo alla Chiesa come colui che serve (cfr. Lc 22,27). È un cammino di assimilazione a Cristo: si diviene sempre più simili a lui, si diviene sua immagine vivente. Questo cammino è il frutto di una fede genuina. Sì, il credente in Cristo è colui che esce da se stesso e va verso il fratello, che si trova nelle periferie dell’esistenza. In questo senso prendersi cura dei malati e dei poveri non è un optional o qualcosa che si possa facilmente delegare ad altri. È frutto della fede, la quale è insieme verità e carità: entrambe si professano, seppure in modo diverso. Non si può dare l’una senza l’altra.
Il tempo impiegato con il malato non è perso, seppure a volte sembra monotono e risulta pesante. È opportunità preziosa per vivere appieno. Non è trattenendosi che si realizza sé stessi, ma spendendosi. I malati e i poveri permettono a chi li incontra di raggiungere la meta per cui l’uomo è stato creato. Egli, infatti, è la sola creatura che porta l’immagine e la logica di Dio: uscire da sé per donarsi.