Europee alle porte: solo un test per i grandi partiti?

Tra poco più di due settimane ci saranno le elezioni europee, ma il clima di sfida è blando e quasi anestetizzante. Una sorta di conto da pagare, di scadenza indigesta e da più parti viene presentato come un vero e proprio referendum sull’Ue. Anche noi italiani saremo chiamati a votare per il rinnovo del Parlamento europeo. Eppure non se ne ha traccia dell’importanza di tale appuntamento. È come avvicinarsi all’ennesimo test per i grandi partiti, per mostrare i propri muscoli e misurare il proprio appeal. Un esperimento da laboratorio, più che un’esperienza cruciale di voto. L’immagine dell’Europa in tutti questi anni ne è uscita con le ossa rotte rispetto alla memoria del dopoguerra ed all’impulso dei padri fondatori come Schuman e De Gasperi. Svanito in una bolla di sapone il ricordo della rifondazione continentale dopo la caduta del muro di Berlino, nonostante siano trascorsi poco più di 20 anni. Insomma si respira un’aria di scetticismo, ma questo “capriccio” antieuropeo è solo un effetto momentaneo delle dure politiche anti-crisi o c’è qualcosa di più serio? C’è di più. L’incapacità di sviluppare una politica economica comune ha generato malessere. La mancanza di una risposta efficace, i freni che hanno impedito alla Bce di intervenire (nonostante la bassa inflazione), i ritardi nell’Unione bancaria e un lungo elenco di eccetera hanno creato malcontento. Bruxelles e Strasburgo sono percepite, sempre più, come le capitali di una burocrazia distante e impotente. Perché quando si tratta di intraprendere azioni collettive, l’Europa ha sbagliato tanto e spesso ed i conti da pagare si allungano. È successo con il tardivo salvataggio della Grecia, con le primavere arabe, poi con la Russia per la vicenda dell’Ucraina. I nodi irrisolti dell’esperienza storica dell’Unione Europea continuano a venire al pettine: gli interessi di politica estera dei paesi dell’Europa unita non sono allineati e in assenza di un vero controllo democratico dei processi decisionali da parte dei popoli, a prevalere sono gli interessi lobbistici o quelli delle nazioni più forti. A questo punto l’Europa non appare più come un punto di riferimento, un centro di aggregazione, ma un’immensa periferia di un mondo globalizzato. Sì, periferia, come piace a Papa Francesco, ma questo non può o deve costituire un freno o un handicap.

Non ha tutti i torti chi pensa che l’incapacità di fare vera politica abbia portato l’Europa a “occuparsi” dello sviluppo di nuovi diritti soggettivi da laboratorio. Diritti che si fabbricano contro l’esperienza della vita e i problemi reali degli europei. C’è una via d’uscita ed è quella di ripartire da quella posizione che ha generato l’Europa. Riscoprire che l’altro è un bene e non un ostacolo, nella politica come nei rapporti umani. Il venir meno dell’impeto ideale e della coscienza dei fini ha prodotto nefaste conseguenze sul funzionamento dell’Europa come istituzione: gli organismi europei sono cresciuti a dismisura e si sono gonfiati su se stessi, generando un mostro tecnocratico che ha piegato la realtà alle proprie esigenze. Ha scritto Papa Francesco nell’Evangelii Gaudium che “il nostro impegno non consiste esclusivamente in azioni o programmi di promozione ed assistenza, ma prima di tutto un’attenzione rivolta all’altro, considerandolo come un’unica cosa con se stesso. Questa attenzione d’amore è l’inizio di una vera preoccupazione per la sua persona e a partire da essa desidero cercare effettivamente il suo bene”. Allora non va allontanato il contributo decisivo che la fede può dare all’agone pubblico, allargando la ragione, come ha ricordato a suo tempo il Papa emerito Benedetto XVI. L’apporto del cristianesimo è l’educazione a guardare la realtà nei suoi fattori e quindi a recuperare quell’impeto ideale originario che si è offuscato nel tempo. È la vera emergenza di oggi. È necessario un cambiamento. La crisi ucraina lo ha reso evidente: il nazionalismo continua a essere l’ideologia minacciosa che riappare quando le altre spariscono.

Dinnanzi all’avanzamento del modello asiatico e all’onnipresenza di quello statunitense, è evidente che il nostro è un mondo che concepisce diversamente il lavoro, il riposo e la vita comune. Ci conviene difenderlo e svilupparlo. Il cambiamento comincia con la consapevolezza della necessità. Non possiamo concepirci solamente come titolari di alcuni diritti che si moltiplicano all’infinito, dimenticandoci che il protagonista della storia è chi si assume responsabilità e costruisce. E da qui può partire una rivoluzione che dia un senso a questa Europa e a quest’appuntamento elettorale che sta scivolando via sotto silenzio.