Essere reatini? È affaccendarsi nell’inutile!

È bastato un servizio del Tg1 sull’autoproclamazione di Narni a centro d’Italia per scatenare le proteste in città. E dire che forse è proprio tutto questo movimento a rendere quasi credibile un’invenzione improbabile.

Domenica scorsa in città è scoppiata una grave polemica: quella con Narni su chi debba fregiarsi del titolo di “Centro d’Italia”. Considerato che la rivendicazione è andata in diretta nazionale sul Tg1 delle 20 c’era da prevederlo. Del resto dalle nostre parti succede sempre così: più il tema è sciocco e sciapo, maggiore è la mole di interventi che suscita.

Al punto da rendere incredibile la quantità di questioni sollevate e posizioni prese da parte dei cittadini e della classe dirigente: un dibattito in crescendo, ampio il più possibile, a tratti erudito, sorprendentemente in grado di analizzare tutti gli aspetti della faccenda e incredibilmente finalizzato a lanciare iniziative.

Come quella dell’amministratore che propone di convocare un Consiglio comunale straordinario da svolgersi in piazza San Rufo: un gesto forte, “istituzionale”, per affrontare come si deve la contesa. Ma c’è anche chi è più legato al metodo sindacale e propone una sorta di tavolo di crisi per lavorare ad una solida strategia di lotta: affiancare a tutte le iniziative di Rieti lo slogan “Centro d’Italia”.

Ovviamente ha dovuto intervenire anche il Sindaco. Sollecitato a dire la sua, ha rassicurato il popolo invitando tutti a mettere il dato storico prima di quello metrico. Anche perché, interrogato dagli uffici del Comune, l’Istituto Geografico Militare ha ribadito che lo stivale non è una figura geometrica ed è perciò impossibile determinarne esattamente il centro.

Sembra un modo gentile per dire che il problema non esiste, ma anche per consentire ad ognuno di argomentare come crede la propria centralità. Tanto che pure il Comune di Antrodoco sembra voler essere della partita con un suo obelisco sormontato da una sfera metallica. E nel frattempo, il sindaco di Narni tira dritto per la sua strada, incurante alla levata di scudi del vetusto Umbilicus in difesa di questo suo ultimo scampolo d’identità.

Un aggrapparsi ai simboli che in fondo sembra più disperato che ridicolo. Come se tolte lapide e caciotta da piazza San Rufo non fossimo più capaci di parlare di noi e di come siamo. E per un attimo ci sfiora il dubbio: se siamo scesi così in basso, se temiamo pure le sparate di un pensionato di Perugia, una penitenza quasi ce la meritiamo.

Perché invece di ragionare a vanvera su situazioni consolidate, su cose che nessuno ci può davvero togliere o negare, potremmo sforzarci di lavorare ad una direzione, uno scopo, una consapevolezza. Potremmo metterci allo specchio, indagare la nostra condizione, i nostri fenomeni, le nostre generazioni.

Anche se in questo sfacelo c’è da resistere alla voglia di fingere che il contesto non esiste, viene il desiderio di cedere allo sconforto, si è tentati di lasciar perdere la dimensione comune per rifugiarsi in percorsi di arricchimento personale, ci si sente attratti dalla sfera privata, dal gusto per la solitudine, dal piacere di un tempo tutto individuale.

In fondo sarebbe quasi un allontanamento per legittima difesa: un mettersi a distanza per evitare di assistere al contrasto scandaloso tra il vaniloquio dominante e i troppi drammi quotidiani, apparentemente condannati a non trovare vie d’uscita.

Ma a fare così ci comporteremmo come quei furbi che avuta la fortuna di poter vantare un qualche successo fuori le mura si permettono di puntare il dito sui problemi della città senza però sentirsi chiamati a doverli risolvere. Un atteggiamento troppo comodo per essere anche buono.