E chi se li fila?

La crisi dei partiti e il venire avanti della cosidetta anti-politica segnano la capacità del mercato di mettere all’angolo la democrazia.

Con il 6 maggio che si avvicina, dalla campagna elettorale in città verrebbe da aspettarsi toni forti, decisi. Invece no. I 7 candidati a sindaco partecipano a incontri e dibattiti in modo piuttosto rilassato. Assistiamo ad una quasi totale mancanza di dialettica, ad una ponderata assenza di decise e opposte prese di posizione. Anche l’elettorato più attivo si è allineato. Il sentimento generale rispetto alla tornata va dall’indifferenza ad una quieta disperazione. Solo una piccola minoranza coltiva uno stentato ottimismo.

Scelta di Fair play? Mancanza di argomenti? Troppe somiglianze tra i programmi? Sospendiamo il giudizio per non tirarci dietro la solita accusa del qualunquismo. Rileviamo però che ad una propaganda debole e poco caratterizzata corrisponde un fiacco interesse popolare.

Anche l’arrivo in città di primedonne della politica e segretari di partito a sostegno di questo o quel candidato, muove poco l’entusiasmo dei cittadini. L’intelligencija che dovrebbe guidare le masse verso un futuro radioso e inventare nuovi entusiasmanti progetti politici non riesce a riempire neanche mezza piazza.

Sarà che nell’età della tecnica i comizi sono fuori del tempo. Di certo la mancanza di aderenza tra i cittadini e le proposte dei partiti ha qualcosa di preoccupante.

La politica si dimostra oramai incapace di farsi riconoscere come un qualcosa di onesto e necessario, in grado di tracciare prospettive di lungo termine. Questo non vuol dire che manchino brave persone nei partiti, intendiamoci. Il tema è che il popolo non ci riconosce più uno strumento, un indirizzo, una visione. Se si appassiona alla contesa politica, in fondo, è più per il suo aspetto spettacolare che per i suoi contenuti.

Infatti, oramai, la politica è pura messa in scena, ampiamente incapace di determinare alcunché. Da tempo lascia che gli indirizzi generali vengano tracciati dal potere economico-finanziario globale.

Il risultato è che le piccole realtà particolari soccombono, o sono irrimediabilmente compromesse. È l’universo astratto degli scambi in borsa a condizionare le comunità e le persone. Distante dalle loro vite, il potere si fa sempre meno controllabile per via democratica.

In questo contesto, che i cittadini siano poco inclini a dar credito alla politica pare naturale. I partiti, permeati dall’ideologia e dal linguaggio della finanza, non sanno far altro che avanzare proposte in favore del mercato. Paiono convinti che dare voce e strumenti ad istanze, sentimenti e bisogni diversi non serva. Non c’è richiesta di senso da parte della base, che trovi nella classe dirigente una risposta a tono.

Guardando alla campagna elettorale locale, ad esempio, non si può che rimanere perplessi. Mentre la città si disgrega e soffre, le si offre poco più di una falsa speranza: l’idea che Rieti possa ancora dare vita ad un “sogno americano” tutto suo.

Forse un vero scontro tra le parti manca proprio perché tutte sono portatrici di questo comune equivoco di fondo. Pensare positivo va bene, ma certe offerte di rilancio sembrano un po’ troppo a buon mercato. Chiediamo scusa per il nostro pessimismo, ma in quest’aria di recessione totale, sembrerebbe saggio volare un po’ più basso e non puntare a facili illusioni.

Non è che qualche miglioramento sia impossibile, capiamoci. Ma il nostro buon senso ci porta a dubitare di certi discorsi. A quale ripresa puntano i candidati?

Ogni parola sembra spesa, è il caso di dirlo, verso una idea economicista della città. Si vuole uscire dalla crisi ricominciando a “crescere”: più turismo, più commerci, più tutto. Discorsi nei quali rimane implicito come sia ancora e sempre la logica del profitto a dominare lo spazio politico, economico, culturale, antropologico, umano.

Che una città sia qualcosa di diverso da una semplice macchina di produzione e consumo non sembra l’argomento all’ordine del giorno di chi si contende le poltrone. Che i modi di essere città e comunità siano la premessa e non la conseguenza dello spazio economico, in certe teste deve suonare come una strana divagazione aliena.

Se le cose stanno così, i politici potranno parlare e fare comunicati sul lavoro, la salute e tutte le altre belle cose fin che vogliono.

Bravi a chiacchierare lo sono di sicuro.

Ma chi se li fila?

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