Don Domenico al funerale delle vittime del terremoto: «Non ti abbandoneremo uomo dell’Appennino»

«Dio non può essere utilizzato come il capro espiatorio. Al contrario, si invita a guardare in quell’unica direzione come possibile salvezza».

Non ha dubbi mons. Pompili nel guardare allo scenario desolante lasciato dal terremoto: «la domanda “Dov’ è Dio?” non va posta dopo, ma va posta prima, e comunque sempre per interpretare la vita e la morte».

Nel giorno delle esequie dei caduti per il sisma che il 24 agosto ha sconvolto il Centro Italia, il vescovo di Rieti ammonisce a non «accontentarsi di risposte patetiche e al limite della superstizione. Come quando si invoca il destino, la sfortuna, la coincidenza impressionante delle circostanze». Perché i terremoti esistono da prima dell’uomo, e perché sono i terremoti ad aver generato «i paesaggi che vediamo e che ci stupiscono per la loro bellezza», le montagne che «racchiudono in loro l’elemento essenziale per la vita dell’uomo: l’acqua dolce».

Senza terremoti non esisterebbero dunque le montagne e forse neppure l’uomo e le altre forme di vita. Il terremoto non uccide. Uccidono piuttosto le opere dell’uomo!

Di fronte alle contraddizioni e alle fragilità della vita, di fronte alle bare allineate davanti all’altare, portate a spalla dai volontari sotto una pioggia battente, dopo aver letto il lungo elenco dei caduti, si può solo guardare a Gesù: «Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò… sono mite e umile di cuore».

«Le parole del Maestro sono come un balsamo sulle ferite fisiche, psicologiche e spirituali di tantissimi», spiega il vescovo. E anche se per riprendersi «ci vorranno anni», è soprattutto nella «mitezza» la chiave del successo: «una ‘forza’ distante sia dalla muscolare ingenuità di chi promette tutto all’istante, sia dall’inerzia rassegnata di chi già si volge altrove».

Ci vogliono «un coinvolgimento tenero e tenace, un abbraccio forte e discreto, un impegno a breve, medio e lungo periodo» per sottrarre la ricostruzione alla «querelle politica», o alle forme dello «sciacallaggio», per «far rivivere una bellezza di cui siamo custodi».

«Disertare questi luoghi – conclude mons. Pompili – sarebbe ucciderli una seconda volta. Abitiamo una terra verde, terra di pastori. Dobbiamo inventarci una forma nuova di presenza che salvaguardi la forza amorevole e tenace del pastore».

Come si ricava da un messaggio in forma poetica che mi è giunto oltre alle preghiere: «Di Geremia, il profeta, rimbomba la voce: “Rachele piange i suoi figli e rifiuta di essere consolata, perché non sono più”. Non ti abbandoneremo uomo dell’Appennino: l’ombra della tua casa tornerà a giocare sulla natia terra. Dell’alba ancor ti stupirai».

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