CINEMA / “Lo chiamavano Jeeg Robot”: nichilismo senza via d’uscita

“Lo chiamavano Jeeg Robot” è il riuscito tentativo di realizzare un comic-movie all’italiana.

C’è un film italiano che sta ottenendo consensi di critica e di pubblico. E sappiamo quanto sia difficile mettere d’accordo il sentire dello studioso cinematografico con quello dello spettatore, che spesso, invece, sono agli antipodi. E’ diretto da un giovane esordiente, Gabriele Mainetti, e interpretato da uno dei migliori attori italiani in circolazione, anche se era un po’ che non si faceva vedere sullo schermo, e cioè Claudio Santamaria. Il film di cui stiamo parlando è “Lo chiamavano Jeeg Robot”, riuscito tentativo di realizzare un comic-movie (un film ispirato ai fumetti, cioè) all’italiana. Scriviamo che è un tentativo riuscito perché narrativamente parlando, la pellicola non ha niente da invidiare a certi film americani su argomenti affini. Anche la regia e la recitazione, così come gli effetti speciali (non tanti per la verità, ma quei pochi efficaci) sono all’altezza degli standard statunitensi. Bisognerà però soffermarsi sull’etica che sottostà all’opera e che ci pare di un cupo nichilismo senza via d’uscita. Differente dalle più famose pellicole dedicate ai supereroi, che, invece, alla fine esaltano certe virtù e una determinata morale.

Enzo Ceccotti non è nessuno, vive a Tor Bella Monaca e sbarca il lunario con piccoli furti sperando di non essere preso. Un giorno, proprio mentre scappa dalla polizia, si tuffa nel Tevere per nascondersi e cade per errore in un barile di materiale radioattivo. Ne uscirà completamente ricoperto di non si sa cosa, barcollante e mezzo morto. In compenso il giorno dopo però si risveglia dotato di forza e resistenza sovraumane. Mentre Enzo scopre cosa gli è successo e cerca di usare i poteri per fare soldi, a Roma c’è una vera lotta per il comando, alcuni clan provenienti da fuori stanno terrorizzando la città con attentati bombaroli e un piccolo pesce intenzionato a farsi strada minaccia la vicina di casa di Enzo, figlia di un suo amico morto da poco. La ragazza ora si è aggrappata a lui ed è così fissata con la serie animata Jeeg Robot da pensare che quel mondo esista davvero e che Enzo sia proprio l’eroe di quel mondo, venuta a salvarla e a salvare il resto dell’umanità. Mentre tutto sta per esplodere, e tutti sembrano avere bisogno di un eroe, Enzo inizia un lento cammino di consapevolezza interiore per assumersi le responsabilità che derivano dal dono inaspettato che ha ricevuto.

Come si può notare, la pellicola segue le tappe canoniche del “risveglio” dell’eroe che da inconsapevole diventa consapevole, grazie a qualcuno che lo aiuta a prendere coscienza di sé e anche e soprattutto grazie alla sua nemesi: il cattivo contro cui si deve confrontare. L’operazione di Mainetti è riuscita perché questo modello narrativo è calato all’interno di un contesto nostrano molto ben caratterizzato: la Roma criminale, già raccontata con successo al cinema e in tv (Romanzo criminale su tutti). Dialetto, atteggiamenti, quartieri sono quelli che ben conosciamo, dove regna la povertà, la criminalità, la solitudine, la disperazione. E qui arriva la nota dolente del buon film di Mainetti: ci pare ci sia troppo compiacimento nei confronti di questa realtà nichilista e violenta (le scene violente non mancano, molte delle quali alla Tarantino), è come se fossimo di fronte ad un’esaltazione dell’anomia della nostra società contemporanea e il nostro super-eroe nella sua lotta a tutto questo è ancora semplicemente abbozzato. Più che dalle parti di Batman, in cui la figura del protagonista, pur in tutte le sue contraddizioni e nel contesto negativissimo di Gotham City, perseguiva un bene, un ideale o cercava di farlo, siamo dalle parti di Sin City, in cui si esaltava la violenza e la sopraffazione, la mancanza di ogni valore, in un tripudio di morti.

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