Alex Schwazer: perdono sì, pena no

Cala il sipario sulle olimpiadi di Londra 2012.

Messo da parte il finto entusiasmo per l’oro di Jessica Rossi al tiro a volo e quello della scherma maschile (in realtà a nessuno è mai importato né dell’uno né dell’altro, i cui protagonisti ben presto sono tornati a vivere nell’ombra dopo appena due passaggi televisivi di gloria, come nella miglior tradizione dell’opportunismo italiano), tutta l’attenzione è concentrata sul caso Schwazer.

Ripercorriamo la vicenda per sommi capi: Alex Schwazer, maratoneta, oro olimpico Pechino 2008, faccia da bravo ragazzo, controllo a sorpresa dell’antidoping, positivo all’Epo, escluso da Londra 2012, cacciato dall’Arma dei Carabinieri.

Una brutta faccenda che ha minato l’immagine di un’Italia sporca sia dentro che fuori e stroncato per sempre la carriera di un giovane atleta. Per quanti sacrifici possa aver fatto in passato, per quanto pulito possa essere stato l’oro di Pechino, Schwazer sarà ricordato come «quello dell’Epo». Siamo un popolo che difficilmente perdona chi sbaglia: tanto facile a beatificare quanto rapido a ghigliottinare al primo errore commesso. E non c’è «mea culpa» che tenga.

Sul web il giudizio è, come sempre, diviso: da una parte c’è chi imputa al maratoneta un’eccessiva smania di sé che lo ha portato a strafare e a perdere il contatto con la realtà fino ad abbandonarsi dietro il fantasma del «mai più secondo»; dall’altra c’è chi lo assolve con formula piena perché «almeno si è scusato».

Ora, partendo dal presupposto che neanche la prima “opzione” è quella giusta, mi vorrei soffermare tuttavia sul secondo punto. Indubbiamente, la confessione prima e le lacrime poi fanno sempre un certo effetto, soprattutto quando sono sincere. Ma è proprio corretto giustificare l’empatia nei riguardi di questo ragazzo con un «ha sbagliato ma si è scusato»?

Che Schwazer vada perdonato non è messo in discussione; il problema, a mio avviso, sta nell’assoluzione post excusatio. Siamo talmente abituati a modelli di comportamento scorretti, alla faccia sfrontata di chi sbaglia e si fa grosso delle proprie bravate che quando invece qualcuno fa quello che sarebbe scontato fare, ci stupiamo.

Hannah Arendt sosteneva che il male è diventato così comune da essere perfino banale; in pratica il concetto è il medesimo: l’arroganza con cui siamo abituati a che fare è così preponderante nella nostra società che è diventata prassi, consuetudine. E magari ci meravigliamo quando si fa avanti l’eccezione, in questo caso l’umiltà di chiedere «scusa».

E allora sì: l’atleta che si è scusato è un atleta che va perdonato.

Ma le scuse sono il minimo che si potesse avere; d’accordo, l’uomo è debole e menzognero ma l’uomo è prima di tutto Uomo, essere razionale per eccellenza. Quando mentiva alla fidanzata sul reale contenuto del flacone che teneva in frigo (non vitamine, bensì Epo) era ben consapevole di ciò che diceva.

Va bene il perdono, ma addirittura pena proprio no.

One thought on “Alex Schwazer: perdono sì, pena no”

  1. Serio

    Le scuse saranno il minimo ma anche il massimo: a quel punto che cosa poteva fare di piú? Anche per giudicare negativamente il fatto che “prima” fosse consapevole bisognerebbe avere la certezza che le nostre azioni siano sempre completamente libere. È una bella presunzione, considerato quanta gente non riesce a smettere di fumare, di bere, di giocare d’azzardo, oppure è dipendente dal sesso, dalla televisione, da Internet o ancora è vittima di compulsioni di vario tipo, apparentemente innocue (fare compere, lavarsi le mani ecc.). Anche costoro sono consapevoli, e non di rado sono anche formidabili mentitori. Eppure non c’è dubbio che meritino comprensione e rispetto indipendenti dal “pentimento” e dal “perdono”: due condizioni squalificanti, puro retaggio di concezioni religiose ormai preistoriche.

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