Rieti: cristiani di parrocchie in crisi

«Frontiera» ospita spesso arguti articoli di don Filippo Sanzi, sacerdote di una certa età, ma attento a scendere sempre in fondo ai problemi, con la verve di un giovincello, attualmente direttore dell’Ufficio Missionario della Curia, con una ultradecennale esperienza come missionario in America latina.

Il suo ultimo articolo sulla parrocchia, che in qualche modo ha voluto riprendere alcuni temi affrontati da chi scrive nel recente passato, voleva correggere il tiro puntando sull’aspetto pastorale e anche teologico, criticando il principio secondo cui se il mio parroco celebra male e dice nelle omelie sciocchezze indecorose, io me ne vado dove è un po’ meglio.

Dice don Filippo: si deve andare a Messa nella propria parrocchia, a parte casi eccezionali, perché è lì che si costruisce la comunità con i suoi problemi, le sue gioie, le sue speranze. Sul piano puramente logico e teologico, ma anche pastorale e sociologico, possiamo essere orientativamente d’accordo, ma vorrei provare a demolire questo assunto che mi pare anche un po’ pericoloso, sia sul piano pratico, che su quello ecclesiologico, pur non essendo “teologo”.

Premesso che è evidente che anche sotto il profilo canonistico si acquisisce il domicilio o il quasi domicilio canonico risiedendo per un certo tempo in una determinata parrocchia, e che sotto il profilo ecclesiale si è membri di una determinata comunità, un po’ come il prete e il vescovo sono incardinati in una determinata giurisdizione, mi sembra che per i fedeli laici si possa profilare una diversa disciplina, sul fronte pratico e teorico.

Noi con il battesimo diventiamo cittadini della Chiesa universale, dunque non esistono “giurisdizioni” in cui dobbiamo essere necessariamente ingabbiati per partecipare alla vita parrocchiale compresa la partecipazione alla Messa, mentre per il chierico sì, salvo dispense e licenze varie. Piccola o grande che sia la comunità non solo si assolve il cosiddetto “precetto” ovunque, ma proprio partecipando ovunque si esercita quella piena cittadinanza che ci rende tutti fratelli. Ognuno di noi laici-cattolici adulti vuole anche curare la propria spiritualità e formazione e ha non solo il diritto ma anche il dovere di scegliere chi gli dà qualcosa di significativo nell’omelia e nel modo di celebrare, chi lo coinvolge nella vita della comunità, chi lo fa crescere.

Se io vivessi in una parrocchia in cui il parroco dicesse nella predica tante sciocchezze, raccontasse delle sue visioni di Madonne e Santi, si lamentasse sempre dei pochi soldi a disposizione, rimproverasse tutti anche per gli assenti, predicasse per quaranta minuti ogni volta, parlasse male del vescovo e dei suoi collaboratori, “svalvolasse” spesso insomma, come dicono a Roma, avrei il dovere di fare questo: registrare le sue omelie, scaricarle in un CD e inviarle con raccomandata al Vescovo chiedendo la rimozione del presbitero. Punto.

La posizione di don Filippo parte da un’utopia, che cioè tutti i preti sono corretti, predicano bene, sono equilibrati e saggi; purtroppo non è così.

Ciò è alla base del disamore del popolo di Dio per la parrocchia e per la Messa domenicale: cioè la pretesa che, essendo chierici ordinati, si possa fare il bello e il cattivo tempo. Ma oggi non è più possibile far credere a nessuno una cosa del genere.

Anzi, direi di più. Quando si vedono fedeli “girare a largo”, come si dice nel gergo militare, ci si dovrebbe prima chiedere se dipende dal primo attore della parrocchia, cioè dal parroco.

Il bisogno di spiritualità, anche cercato nei conventi ove officiano predicatori di grido, e il bisogno di Dio, devono venire ecclesiologicamente prima della propria appartenenza territoriale.

Troviamo la ragione di ciò nel principio teologico e canonistico del “salus animarum suprema lex” (la salvezza delle anime è la legge suprema).

Cioè la prima cosa a cui deve pensare il parroco, ma anche il laico di sé, è se ciò che fa serve per la propria salvezza. Una Messa maldetta e maldestra è sempre una Messa, però a nessuno può essere chiesto di subirla, ma di parteciparvi come cittadino a pieno titolo della Chiesa in tutto il mondo.

I sacerdoti devono saper offrire qualcosa di significativo e in modo conforme a ciò che fa e vuole la Chiesa, altrimenti noi ce ne andiamo da un’altra parte. E facciamo bene!

One thought on “Rieti: cristiani di parrocchie in crisi”

  1. Don Filippo

    Meno Diritto Canonico e più Concilio Vaticano II; Meno teologia più pastorale!

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