32 anni fa, Bologna: «non ai morti, ma ai feriti dell’orrenda strage»

Trentadue anni fa, il 2 agosto 1980, a Bologna, si è consumato uno dei più gravi atti terroristici avvenuti in Italia nel secondo dopoguerra. Alle 10:25, nella sala d’aspetto di seconda classe della Stazione di Bologna Centrale, affollata di turisti e di persone in partenza o di ritorno dalle vacanze, un potente ordigno fu fatto esplodere provocando il crollo dell’ala ovest dell’edificio, causando la morte di 85 persone e il ferimento o la mutilazione di oltre 200.

Sei anni prima, nel novembre del 1974, sulla prima pagina del «Corriere della Sera» Pier Paolo Pasolini metteva nero su bianco il suo celebre «Io so». Scriveva tra le altre cose: «Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974 […] Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974)».

Se non avesse incontrato la morte violenta nel 1975, se non fosse entrato anch’egli tra i misteri italiani, Pasolini avrebbe certamente allungato l’elenco includendo il sangue del 1980 (la tragedia di Ustica accade pochi mesi prima dei fatti di Bologna). Forse si sarebbe spinto fino alle stragi mafiose degli anni ‘90 e anche oltre. Quasi sicuramente non avrebbe cambiato diagnosi. Di certo non avrebbe potuto proporre cure. Proseguiva infatti nell’articolo: «Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero…».

Noi che non abbiamo l’intelligenza di Pasolini, non cercheremo di spingerci molto in là nelle interpretazioni. Sappiamo che ad oggi non si è ancora riusciti a giustapporre i frammenti dei fatti italiani in un insieme coerente e condiviso. Se talvolta si è raggiunta una verità giudiziaria, questa, limitata agli esecutori materiali, non ha corrisposto una verità politica e meno ancora una storica. Ma entrambe devono esserci e bisogna continuare a cercare. Ha scritto a proposito Norberto Bobbio che «sarebbe imperdonabile dimenticare o ignorare l’altra faccia del potere, quella che non si vede. È in questo universo invisibile che sono nati tutti gli episodi di violenza politica che hanno sconvolto il Paese, ivi compreso il più efferato, la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980».

L’epoca in cui viviamo sembra maggiormente pacificata rispetto alle forme di violenza politica che hanno caratterizzato il recente passato. Gli atti ripugnanti delle stragi indiscriminate paiono essere lontani dal nostro immediato quotidiano. Ma i nostri giorni non sono meno inquietanti: le crisi che attraversano tutto l’Occidente (economiche, ecologiche, geopolitiche) il nostro Paese accadono all’interno di una grave perdita di fiducia nella giustizia e nelle istituzioni che scivola anche sulla china di situazioni irrisolte come quella di Bologna. Una strage che ha innegabilmente dato un contributo decisivo al disincanto italiano. Un male che va assai oltre l’effetto devastante dell’eccidio. Uno scandalo che un intelletto vivo e sopra le righe come quello di Carmelo Bene denunciò già l’anno successivo ai fatti quando, in un atto di solidarietà civile, dalla Torre degli Asinelli dedicò la propria straordinaria Lectura Dantis «da ferito a morte, non ai morti, ma ai feriti dell’orrenda strage».

I feriti, i mutilati dall’esplosione, gli accecati dalle schegge, gli assordati dal frastuono, siamo tutti noi che tutt’oggi viviamo su una liscia, impenetrabile, opaca superficie di non detto.