Violenza in strada e sui social: riappropriamoci della nostra umanità

La soluzione, secondo alcuni, è non reagire. Giusto. A patto che non si diventi vittime di un auto-controllo fittizio che rischia di esplodere da un momento all’altro. Altri invocano il destino, sperando di non trovarsi mai nel posto sbagliato al momento sbagliato. Giusto anche questo. Ma non basta. Rinuncia e fatalismo sono soluzioni parziali che, come al solito, rischiano di deresponsabilizzarci di fronte alla turbolenza e alla complessità che caratterizzano il nostro tempo. Un tempo che invece richiede tanta responsabilità

Vite spezzate. Per un litigio. Per l’impossibilità di contenersi, per sentirsi più forte dell’altro, fino a ucciderti. Succede per strada, avviene ovunque. Nelle nostre città, spazi multiformi dove spesso l’umanità sfuma per lasciare il posto alla rabbia, uno dei cancri sociali più devastanti. Si litiga. Per qualunque cosa. Per non essere considerato uno “sfigato”, per avere l’ultima parola sui social, per sentirsi “uomini veri”. Si picchia, si infierisce, si uccide. Elisa e Matteo, i centauri travolti in Piemonte da un furgone guidato da un uomo ubriaco, ne sono esempio estremo.

Vince il più forte come nella foresta. Chi nasconde una spranga nel cofano, chi ha una pistola “detenuta regolarmente”, chi usa le mani per pestare a morte. La violenza diventa normalità, contenuto sulla scena, in televisione, sui social. La colpa è nostra ma è innegabile che la narrazione esasperata dell’aggressività non sia innocua. Sono migliaia i “gruppi fogna” su Facebook che ogni giorno trasmettono immagini di risse tra disperati, tra uomini anziani, adulti, giovani. E perfino bambini. Così come sono tantissime le condivisioni, i like e i commenti aberranti. Diventiamo così i protagonisti di una rissa globale, una royal rumble (nel wrestling è un match a cui partecipano 30 lottatori, ndr) a eliminazione diretta dove a prevalere sarà solo uno solo. Eccolo il paradosso della società iper-connessa: il rischio di una solitudine che, da ordinaria condizione dell’uomo, diventa fardello insopportabile, causa d’insicurezza, ricerca ossessiva di qualcosa che non ho e che devo ottenere a ogni costo. Desidero, quindi sono. Ma se non soddisfo quel bisogno rischio di impazzire, accumulo rancore, me la prendo con il più debole.

La violenza, nostro malgrado, sta diventando (forse lo è sempre stata) dimensione costitutiva della società e modello culturale a cui ispirarsi.

Il bene e il male non sono più così distinti. Viviamo in una sorta di era dell’ambiguità comportamentale, dove debolezze e incertezze possono trasformarsi, a seconda del momento, in prevaricazioni e ritorsioni. Ognuno di noi ogni giorno ne è protagonista. Ogni automobilista sa bene come i litigi potenziali siano dietro l’angolo, come la prepotenza sia una delle dinamiche predominanti quando si guida. Ma succede anche in famiglia, a scuola tra genitori e insegnanti, nei luoghi di lavoro o in qualunque altro spazio che ospita porzioni più o meno grandi della nostra vita quotidiana.

La soluzione, secondo alcuni, è non reagire. Giusto. A patto che non si diventi vittime di un auto-controllo fittizio che rischia di esplodere da un momento all’altro. Altri invocano il destino, sperando di non trovarsi mai nel posto sbagliato al momento sbagliato. Giusto anche questo. Ma non basta. Rinuncia e fatalismo sono soluzioni parziali che, come al solito, rischiano di deresponsabilizzarci di fronte alla turbolenza e alla complessità che caratterizzano il nostro tempo. Un tempo che invece richiede tanta responsabilità.

Riabituiamoci alle categorie che contraddistinguono la nostra umanità: relazione, dignità, affetto, bene comune, educazione, solo per citarne alcune.

Sono i capisaldi con cui siamo cresciuti. Sono il centro dei rimproveri dei nostri genitori, delle prediche dei sacerdoti e delle ramanzine dei nostri insegnanti. Ci sono familiari molto più di una violenza gratuita che non può appartenerci e che rischia di disumanizzarci a tal punto da mettere a repentaglio quel senso autentico di comunità su cui poggiano (in modo sempre più traballante) le nostre esistenze.