Viaggio interiore con “Arrival”, pellicola del regista canadese Denis Villeneuve

Dal 1977 il genere della fantascienza è stato declinato per lo più secondo i canoni estetici, narrativi e tematici dei due grandi Blockbuster di quell’anno: “Stars war” di George Lucas e “Incontri ravvicinati del terzo tipo” di Steven Spielberg. Secondo, cioè, la concezione di un cinema dall’alto budget, in cui gli effetti speciali hanno un ruolo preminente e che vuole essere soprattutto un racconto spettacolare e di grande intrattenimento. Un cinema che non disdegna, certo, di porsi delle domande ma che essenzialmente vuole far entrare lo spettatore in una montagna russa di effetti speciali, luci, colori e musiche e fargli vivere un’esperienza vibrante e coinvolgente, totalmente immersiva. La fantascienza, dunque, è diventato il genere per eccellenza dello stupore e della meraviglia visiva e sonora. Alcuni registi, però, non hanno dimenticato che la fantascienza, fin dalla letteratura, è il genere perfetto per riflettere anche su temi essenziali che riguardano l’umanità, la sua natura, il suo destino. Un genere che ci porta nel Mistero della vita e del mondo che ci circonda, che sonda in profondità la nostra anima. Dunque il racconto di fantascienza non è semplicemente il racconto di un viaggio esteriore nello spazio o dallo spazio sulla terra, bensì è il racconto di un viaggio interiore che va alle radici della nostra essenza. Di tutto questo deve essersi ricordato il regista canadese Denis Villeneuve quando ha deciso di girare il suo “Arrival”. Un film, candidato a ben 8 Oscar (un successo mai raggiunto per una pellicola di fantascienza), che, a prima vista, potrebbe sembrare vicino a “Incontri ravvicinati” (anche qui abbiamo un contatto fra alieni e umani), ma che in realtà si distacca totalmente da quel modello spielberghiano, per proporci la storia di un viaggio soprattutto interiore.

Lousie Banks, linguista di fama mondiale, è madre inconsolabile di una figlia morta prematuramente. Ma quello che crede la fine è invece un inizio. L’inizio di una storia straordinaria. Nel mondo galleggiano dodici navi aliene in attesa di contatto. Eccellenza in materia, Louise è reclutata dall’esercito degli Stati Uniti insieme al fisico teorico Ian Donnelly. La missione è quella di penetrare il monumentale monolite e “interrogare” gli extraterrestri sulle loro intenzioni. Ma l’incarico si rivela molto presto complesso e Louise dovrà trovare un alfabeto comune per costruire un dialogo con l’altro. Il mondo fuori intanto impazzisce e le potenze mondiali dichiarano guerra all’indecifrabile alieno.
Il film disattende le attese dello spettatore: non procede, infatti, sulla base di scene d’azione o di effetti speciali, entrambi sono quasi banditi, ma segue, lentamente, il percorso della protagonista alla ricerca della definizione di una lingua comune per poter comunicare con l’Altro. E nel cercare questa lingua, naturalmente, la donna compie un percorso di conoscenza non solo dell’Altro ma anche e soprattutto di sé. Uno scavo interiore alla radice della propria essenza umana. Villeneuve ci propone un trattato filosofico sul linguaggio come forma che plasma il nostro modo di essere e di vivere e percepire il mondo, più che la storia di un’invasione aliena dove c’è da capire se gli extra-terrestri sono venuti per ucciderci o per aiutarci. In più, come in altri film di fantascienza recenti, il regista “sconvolge” la categoria del tempo e della sua percezione (e non si può svelare in che modo, naturalmente), seguendo le ormai assodate teorie fisiche più moderne sulla relatività spazio-temporale e sul tempo quantistico. Una pellicola, dunque, che più che all’intrattenimento punta all’approfondimento o per lo meno fa porre allo spettatore una serie di domande con il quale si dovrà confrontare anche dopo la visione del film.