Una forza di popolo

Grandissima presenza di pubblico alla rievocazione storica della Canonizzazione di San Domenico di Guzman. In un fine settimana carico di offerte, gran parte della città ha accordato la propria preferenza alla ricerca di “luci dai secoli bui”, trovando una vera occasione di partecipazione e incontro.

La grande partecipazione popolare alla rievocazione storica della canonizzazione di Domenico di Guzman, rappresentata sabato 3 settembre per le cure del Consorzio Reate Antiqua Civitas, ha confermato la validità di una chiave di lettura della città e la proposta di un modo di abitarla tutto centrato sulla partecipazione e l’autoproduzione. Tiriamo le somme della manifestazione con Fabio Spaccini, presidente del Consorzio.

Fabio, la manifestazione sta crescendo di misura e importanza…

Beh, questi sono giudizi che non spetta a noi dare, ma ovviamente ci fa piacere sentircelo dire. Non per vanità, quanto perché dà ragione allo sforzo che facciamo come Consorzio e che chiediamo a tutti coloro che vengono a partecipare all’evento.

Cosa vuoi dire?

Qualcuno ci rimprovera di non disporre spalti e gradinate per poter permettere a tutti di seguire comodamente. Il fatto è che questo tipo di approccio non ci interessa. Non vogliamo “ordinare” il pubblico, disporlo su scale e gerarchie, né bloccarlo in una situazione. Mano a mano che crescono le nostre possibilità e capacità progettuali, l’evento della rievocazione si espande sulla città con più interventi, anche contemporanei. Il nostro pubblico ideale è fluido, mobile. Vogliamo trovarlo e perderlo. Vogliamo stimolare la curiosità e la voglia di vedere: per seguirci il pubblico deve partecipare, muoversi e sudare, mescolarsi ai fatti rappresentati. Solo così si dà autentica rievocazione: la rappresentazione diventa un vissuto, un approccio da tentare, la proposta di una prassi.

In questo si trova l’importanza del rapporto tra il fatto storico e la città?

Certamente! Quante volte abbiamo visto la città svenduta, sfruttata, occupata, asservita ad eventi con non hanno nulla a che fare con le sue piazze, la sua pianura, la sua montagna. L’abbiamo vista diventare il palcoscenico di interessi che le sono del tutto estranei. Il nostro è uno sforzo di popolo che vuole comunicare la protezione e la promozione vera di un orizzonte locale. Diversamente dalle altre operazioni che da tempo si fanno sulla città, noi non le sovrapponiamo nulla per renderla attraente. Chi arriva a Rieti per partecipare alla rievocazione della canonizzazione lo fa per rendere omaggio alla città, senza che questa debba imbellettarsi per il bel mondo o condirsi di qualche spezia esotica.

Un invito a fare un buon uso della città…

C’è un uso che è conservazione, salvaguardia. Vivere bene la città vuol dire farla propria, abitarla, cioè, in modo appropriato. Il modo in cui interessiamo gli spazi della città è un invito ad un modo appropriato di usare la cittadinanza, la democrazia, il denaro, le risorse urbane e naturali. La vera conservazione di un bene, sia esso una chiesa, una piazza o una città intera è il suo uso coerente, rispettoso delle ragioni originali, del modo e del perché un qualcosa è stato prodotto e tramandato ed è arrivato fino a noi.

In un tempo in cui la smania per la novità è costante e forte, la proposta che fate è in decisa controtendenza.

L’evento è pensato, progettato, realizzato, comunicato non per essere originale, ma antico, conservatore. Vuole scovare quelle risorse che la città crede di aver perduto per sempre, e che invece le sono state tramandate e si ritrovano vive e feconde appena sotto un po’ di polvere. Vuole portare avanti quello che ha già funzionato, quello che già si è fatto, detto e scritto. Non è cosa da poco, anzi. Spesso corrisponde a qualcosa che stato messo al margine per interesse, alla scoperta di un qualcosa occultato ad arte perché fosse dimenticato, perché non si sapesse, perché non potesse mettere in discussione le dipendenze artificiose che la città ha sviluppato rispetto a certi potentati.

La manifestazione quindi mantiene come tratto principale un messaggio civico…

In questo momento di grave difficoltà, pensiamo che il nostro modo di procedere riesca in qualche modo a testimoniare come Rieti possa farcela da sola. In questo trova ragione la nostra volontà di auto-produzione. I costumi che abbiamo cucito, i materiali scenici che abbiamo costruito, la capacità di portare in piazza quasi cinquecento figuranti con una disponibilità economica minima, dimostrano che si può fare tutto al di fuori degli schemi dominanti. A dispetto di tanti eventi, anche più piccoli del nostro, in cui il promotore di turno si vanta di quanto ha speso per promuovere la città – e di solito sono soldi pubblici – noi riusciamo a dimostrare che la città ce la fa benissimo senza. Al centro della operazione non ci sono i soldi, ma gli uomini. I nostri sono i risultati che sono possibili partendo dal senso di umanità, dal fare comunità, dal mettersi in comunione. Un sentimento che restituisce quella coesione, quella unità, che poi possono essere indirizzate in vario modo, anche per sostenere delle realtà in crisi.

In questo sta la ragione della scelta consortile?

Sì. L’associazionismo, il volontariato e la partecipazione rimangono le chiavi delle nostre produzioni, a patto di non confondersi con quello che viene chiamato il “terzo settore”, quel volontariato che pur nascendo con intenti di autentica solidarietà, viene intercettato dai tecnocrati, foraggiato in vario modo e ricondotto ad apparati che lo riordinano in funzione di tutt’altro.

Perché recuperare la figura di San Domenico?

Perché è portatore di un messaggio di fede che si fa civiltà e cittadinanza. L’apostolato di Domenico era imperniato su dibattiti pubblici, colloqui personali, trattative, predicazioni e opere di persuasione. Domenico lottò contro le derive del proprio tempo con l’esempio, contrapponendo loro la vita retta, l’umiltà e la povertà. Rifiutando la violenza. Fu certamente il campione di un’Europa che si andava costituendo su fondamenta di civiltà e di fede e fu canonizzato in una Rieti che all’epoca era in piena sintonia con quello spirito e lo dimostrava: con la propria crescita e la propria capacità di darsi un ruolo.

E la città di oggi?

La città di oggi – è un luogo comune – pare addormentata. Alcuni ci vogliono convincere che è colpa della crisi, che dorme perché è gravemente ammalata. Forse, però, dorme perché si è semplicemente convinta che sia ancora notte. Se è questo il motivo di tanto russare, noi la invitiamo ad aprire le tapparelle: lasci entrare il giorno e guardi in cielo e in strada, perché non è sola.