Sud Sudan: una legge riduce il personale straniero delle Ong. La preoccupazione di specialisti e religiosi

Una nuova legge, approvata dal parlamento e già firmata dal presidente Salva Kiir, prevede che l’80% del personale di queste realtà, a tutti i livelli, debba d’ora in poi essere di nazionalità sudsudanese. Per Daniela Gulino, referente per i progetti in Sud Sudan del Comitato Collaborazione Medica (Ccm), “avere personale quasi totalmente sudsudanese in questo settore non sarà fattibile ancora per anni”. E padre Daniele Moschetti, superiore dei missionari comboniani in Sud Sudan, mettere in guardia: “Il passaggio da chi ha competenze a chi ne dovrebbe avere deve essere graduale e non brusco come invece impone questa decisione del governo e del parlamento”

 

Per l’Onu, l’arrivo degli aiuti umanitari in Sud Sudan rischia di trasformarsi in una “corsa contro il tempo”, ma non è questa l’unica preoccupazione delle organizzazioni non governative nel Paese che cerca di uscire da tre anni di guerra civile. Nelle stesse ore in cui il coordinatore delle operazioni umanitarie delle Nazioni Unite a Juba, Eugene Owusu, ha invitato la comunità internazionale a mobilitare tutte le risorse possibili prima della prossima stagione delle piogge, dal palazzo del governo è arrivata infatti una notizia capace di mettere in allarme molte ong attive sul territorio. Una nuova legge, approvata dal parlamento e già firmata dal presidente Salva Kiir, prevede che l’80% del personale di queste realtà, a tutti i livelli, debba d’ora in poi essere di nazionalità sudsudanese.

Pochi specialisti. Non è la prima volta che le autorità dello Stato nato nel 2011 tentano di legiferare su questo punto: una norma simile era stata già proposta lo scorso anno e poi accantonata, mentre da tempo il governo invita ad applicare quote nel reclutamento dei dipendenti. Ora, però, non rispettare queste disposizioni potrà costare forti multe ed anche il carcere fino a tre anni. “L’impatto della nuova legge rischia di essere importante, perché si tratta di vincoli che a volte non sarà semplice applicare. – riconosce Daniela Gulino, referente per i progetti in Sud Sudan del Comitato Collaborazione Medica (Ccm) -. Non sempre esistono profili qualificati per il coordinamento e l’amministrazione dei progetti”. Se infatti da un lato le organizzazioni – in particolare quelle medie e grandi – già contano una percentuale sufficiente di sudsudanesi tra il personale, dall’altro i ruoli chiave, che si tratti dei responsabili finanziari o di quelli dei progetti nazionali, sono quasi sempre ricoperti da stranieri. Fare diversamente, del resto, sembra difficile: “Secondo le stime più recenti, meno del 10% del personale impegnato nel settore sanitario ha completato gli studi specialistici”, spiega ad esempio Gulino. In più, dalle scuole di formazione, inevitabilmente costose, escono circa un centinaio di specialisti all’anno, tra medici, ostetriche e infermieri: troppo pochi se si considera l’estensione del territorio e dei sevizi di base che lo Stato – attualmente sostenuto in questo compito proprio da molte ong – dovrà garantire. “Avere personale quasi totalmente sudsudanese in questo settore non sarà fattibile ancora per anni: difficile dire quanto ci vorrà, forse addirittura una generazione”, stima la responsabile di Ccm.

Difficoltà crescenti. “Il passaggio da chi ha competenze a chi ne dovrebbe avere deve essere graduale e non brusco come invece impone questa decisione del governo e del parlamento”, ragiona anche padre Daniele Moschetti, superiore dei missionari comboniani in Sud Sudan. “Sicuramente – prosegue – ci saranno degli effetti anche sulla Chiesa locale e sui missionari”. Anche se non toccate direttamente dalle nuove norme, infatti, le strutture religiose spesso svolgono un lavoro importante in ambiti come la sanità e la formazione e potrebbero vedere questo compito aggravarsi se le organizzazioni internazionali dovessero ridurre le attività. Ad aumentare i problemi contribuisce anche la burocrazia, che ha reso più laborioso sia ottenere permessi di lavoro per gli stranieri, sia registrare le organizzazioni non governative. Una scelta che ha molti motivi: alle “diverse visioni tra mondi, quello politico-militare e quello umanitario, che a volte non s’incontrano”, come le definisce padre Moschetti, si aggiunge, secondo altri a Juba, la necessità per un governo in difficoltà economiche di ottenere maggiori entrate, anche attraverso bolli e permessi. Il risultato sono comunque tempi più lunghi per iniziare le attività e quindi un’azione meno efficaci. Conseguenze non troppo diverse potrebbe avere, infine, la decisione delle autorità di svalutare pesantemente – tra dicembre e gennaio – la moneta locale, provocando una perdita di potere d’acquisto che, per gli operatori umanitari locali è arrivata anche all’80%. Per i responsabili delle ong, questo è un altro dilemma: per salvaguardare le condizioni di vita di questi lavoratori, sintetizza Daniela Gulino “o saranno in grado di trovare nuovi finanziamenti oppure dovranno scegliere di  ridurre il numero di strutture e il personale”. Con conseguenze facilmente immaginabili nel paese colpito dal conflitto.