I giornali sono stati, per qualche giorno, pieni della dichiarazione di Papa Francesco — citando parole che erano già state scritte da san Giovanni Paolo II ma mai pronunciate — che il popolo armeno ha subito atti di “genocidio” per mano dei turchi nella prima parte dell’ultimo secolo. La dichiarazione del Papa e le proteste forti del governo turco hanno creato un scontro diplomatico sulla questione, a cento anni da quel tragico martirio. Tutto questo ci riporta alla domanda che noi, figli del XX secolo, ci siamo fatti molte volte: perché un genocidio? Perché sono stati commessi dei genocidi? Da che impulso umano derivano? La risposta che ci torna costantemente è che il genocidio è un’espressione perversa della nostalgia del paradiso che giace nel profondo del cuore umano. Siamo stati fatti per un mondo diverso da quello nel quale viviamo e ci troviamo. Questo nostro mondo promette, ma non ci dà una vita perfetta. Questa contraddizione, se non trova una risposta, può generare nel nostro animo la peggiore violenza. E scatenare scenari della più assoluta negatività umana.
Il nostro mondo scoppia dei tentativi più o meno violenti di creare un paradiso qui, sulla terra. È questo desiderio così profondo ma senza risposta adeguata nella società, che sta dietro l’uccisione di massa che avviene nell’aborto. Leggiamo che in alcune parti del mondo il numero di persone con la sindrome di Down si ristringe fino a sparire per la decisione di eliminare chi ne è affetto prima di nascere. La ragione è semplice: la nostalgia per un mondo diverso da questo che non spera nelle promesse di Cristo ha bisogno di eliminare l’umanità scomoda. Facciamo un passo indietro e pensiamo, anni fa, quando sorse il movimento talebano in Afghanistan. I giornalisti intervistavano i talebani non afgani provenienti da tutte le parti del mondo per combattere sul suolo afghano, e immancabilmente chiedevano loro perché lo facessero. Tutti rispondevano allo stesso modo: siamo venuti qui per vivere il paradiso sulla terra. Queste risposte hanno sempre suscitato una grande impressione. E tornano ora alla mente mentre leggiamo increduli e sbigottiti le notizie che riguardano i Boko Haram in Nigeria e i militanti dell’Isis in Siria e Iraq. Anch’essi stanno cercando di creare un paradiso sulla terra, e il corollario di questo tentativo è la necessità di cancellare tutti coloro che non c’entrano. Che sono fuori dalla loro presunta purezza e perfezione.
I fidanzati che devono prepararsi ad una vita matrimoniale non devono considerare il compito di costruire una casa come lo sforzo di edificare un paradiso. Chiunque intraprenda un progetto come questo deve per forza finire con l’eliminare quegli elementi umani che disturbano il tentativo, lo contraddicono o non rispondono all’altezza delle aspettative. La missione della casa, invece, è di accogliere la persona per accompagnarla verso il suo destino buono, la casa del Padre di Gesù Cristo in cielo, soprattutto la persona che più ha bisogno di un aiuto in questa strada.
C’è una risposta alla tentazione di creare un paradiso sulla terra, fino alle sue estreme conseguenze, il massacro di interi popoli? Sì, ed è l’incontrare una realtà umana che rende credibile la promessa del cielo tramite la possibilità di pregustare questa pienezza in un’esperienza umana, eccezionale, qui, sulla terra. Questa possibilità si chiama Chiesa.
È giusto perciò che il Papa parli di queste cose, perché è solo la Chiesa che può dare una risposta adeguata a questo desiderio originario del cuore umano, questa nostalgia che noi chiamiamo paradiso. La missione della Chiesa, perciò, è di accogliere l’umanità e accompagnarla sulla strada che porta alla casa del Padre. Il tempo dei genocidi non è finito, e non finirà finché la risposta adeguata non è percepita e accolta dalla società. Il paradiso non è sognare o edificare un mondo di assoluto benessere nella realtà di tutti i giorni, a costo di togliere di mezzo chi danneggia questo progetto, ma è sentire una felice corrispondenza tra quello che si desidera e quello che si sperimenta quotidianamente, pur nelle discrepanze inevitabili e nelle preoccupazioni consuete. Come il segno miracoloso di un’altra presenza che ci conosce più di noi stessi e che opera per il nostro bene. Una presenza presente.