Rimossa dall’Università di Cape Town, dopo settimane di proteste e atti vandalici, la statua di Cecil Rhodes, politico e uomo d’affari, protagonista dell’espansione dell’impero britannico in Africa alla fine del XIX secolo. Per padre Russell Pollitt (“Jesuit Insitute”): “Gli atti di vandalismo non aiutano il dibattito e quello delle statue è un aspetto marginale: dobbiamo impegnarci in un processo che assicuri una vera trasformazione”.
Può una statua mettere in dubbio il fondamento stesso del nuovo Sudafrica democratico, quello nato dalla scelta di riconciliazione di Nelson Mandela? Forse no, ma di certo sta mostrando quanto la questione del rapporto col passato sia ancora viva nella società che si è lasciata alle spalle il regime di minoranza dei bianchi e la segregazione razziale. Al centro delle disputa c’è la figura di Cecil Rhodes, politico e uomo d’affari (fondò, tra l’altro, la compagnia diamantifera De Beers) protagonista dell’espansione dell’impero britannico in Africa alla fine del XIX secolo: uno dei vari monumenti che lo ricordano è all’interno dell’Università di Cape Town. O meglio, era, visto che dopo settimane di proteste da parte degli studenti il senato accademico ha accettato di rimuovere la statua, nel frattempo vandalizzata più volte.
Reazioni estreme. Per i manifestanti, l’opposizione a Rhodes (arrivata anche su Twitter, con la campagna #RhodesMustFall, Rhodes deve cadere) era anche – o forse soprattutto – una maniera di denunciare come poco fosse cambiato nella loro università in due decenni: ancora oggi, l’83% degli incarichi di responsabilità è in mano a bianchi e i docenti neri sono appena cinque. Ma evocare il tema del colonialismo – tanto più attraverso una figura come Rhodes, che contribuì ad espropriare i neri delle loro terre – significa anche toccare la sensibilità politica di chi ritiene che il cambiamento promesso nel 1994, soprattutto dal punto di vista economico, tardi ad arrivare. È il caso di Julius Malema, giovane leader nero dell’opposizione radicale, che ha esortato a “far crollare” non solo la statua a Cape Town, ma anche “altri simboli” di quell’epoca. Provocando, oltre a reazioni minacciose da parte delle frange più estreme della comunità bianca, anche conseguenze paradossali: tra i monumenti vandalizzati, infatti, ci sono stati anche un busto del poeta portoghese Fernando Pessoa, che in Sudafrica visse da giovane, e un memoriale che ricorda… i cavalli morti durante le guerre anglo-boere.
Dialogo necessario. C’è dunque da temere per il lascito ideale di Mandela, che aveva voluto integrare – e mai cancellare – il passato nella nuova società sudafricana? Non la pensa così padre Russell Pollitt, del “Jesuit Insitute”, centro studi della Compagnia di Gesù a Johannesburg. “Probabilmente – spiega – Malema sta solo pensando, da opportunista, alla sua carriera politica”. Di certo, prosegue il sacerdote, “gli atti di vandalismo non aiutano il dibattito e quello delle statue è un aspetto marginale: dobbiamo impegnarci in un processo che assicuri una vera trasformazione”. In questo ambito, le Chiese e le altre istituzioni religiose possono giocare un ruolo importante, come già accaduto durante la transizione democratica. Ricordando l’esempio dell’arcivescovo anglicano e premio Nobel Desmond Tutu, il gesuita definisce così questo contributo: “Rendere le persone capaci di parlare delle sofferenze del passato, ma in vista di una riconciliazione e di una guarigione”. Ciò, precisa, non significa fare a meno della memoria: “Non possiamo cancellare la storia, dobbiamo restarne consapevoli, e così facendo evitare che si ripeta”.
Dibattito a più facce. “Anche le Chiese evangeliche – ricorda da parte sua il reverendo Moss Nthla, segretario generale dell’organismo che le riunisce, la Evangelical Alliance – sono da sempre dichiaratamente impegnate per la riconciliazione e la questione della statua di Rhodes per noi è una parte del dibattito”. Questo, sostiene, “ha più di una faccia e coinvolge diversi livelli: il fronte lavorativo, quello politico, quello accademico e culturale. Si deve discutere di simili temi e quello delle statue non deve cancellare gli altri”. In particolare, secondo il reverendo, “bisogna prendere posizione sul fatto che, vent’anni dopo l’arrivo della democrazia, la sofferenza dei poveri è grande”. Tra gli ultimi, molti appartengono alla maggioranza che fu segregata: l’85% dei neri, secondo la banca d’affari Goldman Sachs, vive in una situazione di difficoltà economica. “Qui non si parla solo di numeri – riprende dunque Nthla – si parla di benessere e miseria, di potere e di mancanza di esso, di chi vive e di chi muore. Dietro la campagna contro la statua di Rhodes ci sono anche i poveri che ci ricordano tutte queste cose e le Chiese devono pronunciarsi profeticamente su questo punto”.