Psicopatologia della vita reatina

Ammettiamolo: alcuni vorrebbero che Rieti fosse più “svizzera” della Svizzera: razionale, ordinata, asettica. Vorrebbero una specie di macchina urbana, che funziona da sola al ritmo di un suo ticchettio d’orologio. Ce lo racconta l’aumento inarrestabile ed insensato di segnaletica, cordoli e paletti. A sentire altri, invece, la città sarebbe ormai solo un ricettacolo di putridume, cartacce, e cacche di cane.

Va bene dico io, ma facciamo attenzione! Non fermiamoci al piano stradale, alla cicca buttata sul passaggio zebrato. Proviamo ogni tanto a scendere sotto l’asfalto, ad alzare il tappeto. Proviamo ad indagare sulla psicologia della città.

Come siamo messi? «Male», risponde il coro, e nessuno ne dubita. Ma non sarà anche questo un luogo comune? In fondo non è che la città se ne stia immobile ad aspettare la propria morte in riva al Velino! La disoccupazione non manca, ma sono tanti anche quelli che si danno da fare.

Certo, il declino è reale: serrande abbassate, fabbriche chiuse e forza lavoro a spasso. Sarà un motivo sufficiente per farsi delle domande, per attenersi ai fatti, e usarli come spunti per ragionare?

Si direbbe proprio di no. Scontato il solito trionfalismo, la vita pubblica è tale per modo di dire. Tante le chiacchiere da social network, ma le vere occasioni di discussione sono poche. Si fanno i convegni, è vero, ma sembra si dibatta più per dovere che per convinzione.

E dire che il desiderio di partecipazione non manca. E anche la richiesta trasparenza è sempre più forte. In tanti non ne possono più del clientelismo asfittico e dei giochi di potere. Qualcuno si mette a pure a setacciare i conti pubblici, a controllare gli Albi Pretori, a fare le pulci ai notabili.

È utile, forse è pure divertente. Ma le cose non cambiano lo stesso. Sarà perché la voglia di un’ottusa aderenza alla burocrazia finisce per far somigliare il cittadino benpensante a chi fa attraversamenti pedonali cervellotici?

Forse entrambi patiscono la stessa nevrosi. Magari l’uno e l’altro sono convinti di risolvere i problemi innescando meccanismi trasparenti, percorsi obbligati. Qualche regola serve sempre, intendiamoci. Permette di fare le cose in sicurezza. Ma aiuta anche a fare le scelte giuste?

Di segnaletica ne basta poca se si sa dove andare. Ma oggi una direzione è merce rara. Siamo immersi nel flusso caotico della società liquida: mica possiamo attaccarci all’ideologia! È roba dello scorso millennio. Chi parla più di retroterra e prospettive?

Eppure qualche idea non guasterebbe. Non è forse vero che il confronto è talmente approssimativo, talmente incerto e privo di spessore, che le posizioni si possono rinegoziare di volta in volta senza pagare pegno?

Ma lasciamo stare. Guardiamo piuttosto a come sembriamo soli e disperati. Ci mancano punti di vista comuni. Forse ci siamo convinti che le nostre vite non si appartengano nemmeno un po’. Forse è questo che rende tutto più grigio e anonimo. Hai voglia a riqualificare il centro. Il risultato sarà sempre mediocre se non ci metteremo un po’ d’amore!

Ecco la carenza della città! Senza un po’ d’affetto non potrà che rimanere sciatta, rancorosa, avvilita. E continuerà a reggersi sulle rendite di posizione. Chi può si tiene la sua piazzetta, gli altri si arrangiano! Succederà perché invece di mettere insieme i cocci prendiamo le distanze? Perché ci malediciamo? Perché siamo sospettosi?

Tutto è possibile. Di certo c’è che stiamo perdendo il sorriso. E invece è proprio quello che ci servirebbe. La risata unisce, fa buon sangue. E sembra davvero l’unica risposta possibile a questo delirio organizzato che chiamiamo città, con i suoi intellettuali sabaudi, il suo internazionalismo d’accatto, il suo feudalesimo scaduto.

Una situazione talmente ridicola, che davvero non la si può prendere più sul serio.