Pasolini: la voce che manca

Il 2 novembre 1975, fu brutalmente ucciso a Ostia Pier Paolo Pasolini, intellettuale tra i più profondi e appassionati che la recente storia italiana abbia avuto.

Poeta, romanziere, drammaturgo, cineasta, saggista profondo e inesauribile, era animato da un accorato impegno civile, sostenuto da uno sguardo capace di leggere la realtà molto al di sotto della superfice e di cogliere le onde lunghe della storia. A mancare nell’Italia odierna, più del suo lavoro di artista, è la sua intesa opera di giornalista, di scrutatore del reale, di esegeta dei fatti, di inventore di letture del quotidiano inedite e forse paradossali, ma mai false o scontate. Il progressivo affermarsi nel nostro Paese di comportamenti e valori tipici della civiltà dei consumi è stato esaminato dallo scrittore, sopratutto a partire dalla metà degli anni ‘70, in una serie di interventi sulla carta stampata. La radicalità appassionata e puntuale di certi suoi giudizi, hanno suscitato vivaci e frequenti polemiche e ancora oggi fondano punti di vista illuminanti e chiavi di lettura preziose.

Contro l’omologazione


Pasolini è tra i primi a vedere nella spirale dei bisogni artificiosamente creati dallo “sviluppo”, mitizzato dalla società contemporanea, un meccanismo che estingue la moltitudine di modi di vita e la varietà di valori culturali che l’umanità ha prodotto nella propria storia. Lo scrittore legge nel suo tempo un processo di omologazione che riduce gli uomini ad intercambiabili funzioni di un sistema disinteressato o avverso a ciò che è propriamente umano.

Dentro questo processo epocale cade ogni analisi, ogni attenzione, ogni sguardo pasoliniano. Certamente ateo, lo scrittore era paradossalmente dotato di un sentimento autenticamente religioso. In conseguenza di questa tensione spirituale ha combattuto tutta la vita contro la dissacrazione del mondo.

«L’omologazione culturale ha cancellato dall’orizzonte le “piccole patrie”, le cui luci brillano ormai nel rimpianto, memorie sempre più labili di stelle scomparse. “Come polli d’allevamento, gli italiani hanno indi accettato la nuova sacralità, non nominata, della merce e del suo consumo”: è questa la nuova società nella quale oggi ci muoviamo, testimoni e vittime dei lutti culturali».

I libri, gli articoli, i discorsi pubblici, le interviste e le inchieste dello scrittore erano capaci di scovare le fratture di un mondo apparentemente positivo e pacifico. Pasolini era un intellettuale lucido e disincantato, che spendeva ogni sua parola per denunciare il prezzo iniquo che la società dei consumi paga per lo “sviluppo”.  Sapeva che il benessere della deflagrazione del boom economico corrispondeva ad una perdita secca di umanità. Una crisi che allora era latente, mentre oggi è emersa alla luce del sole e si legge facilmente nell’invarianza culturale e nei discorsi che vogliono ridurre ogni ambito ad una questione di mercato.

 L’umanità consumata


Il «laicismo consumistico», dice lo scrittore, ha privato d’umanità gli uomini trasformandoli in «brutti e stupidi automi adoratori di feticci». La “religione del nostro tempo” allora, non può che trovarsi nel vuoto esistenziale in cui si vive tra il neocapitalismo e la «desistenza rivoluzionaria».

Pasolini fu capace di intravedere l’«arcicapitalismo» di cui parla Raffaele Simone ne Il Mostro Mite (Garzanti 2008): il fenomeno in cui l’accumulo dei profitti non si limita a passare dallo sfruttamento dei lavoratori, ma mira a consumare il consumatore, travalicando la dimensione economica fino a pervadere la vita individuale e sociale. Un risultato ottenuto attraverso «pubblicità , marketing, credito facile per il piccolo consumo, desiderio di “fun” e di evasione, speranza di restare giovani a lungo e di trarre prolungati piaceri dalla vita sessuale, una vaga aspirazione a una vita abbondante e disinvolta […]». Una analisi che sembra una espansione dell’intuizione di Pasolini, quando si accorge che «la società non offre al giovane lavoro, ma infiniti modi di dimenticare il presente e di non pensare al futuro».

L’aborto e il divorzio


In tale impostazione rientrano le visioni pasoliniane dei due epocali dibattiti pubblici degli anni ‘70: quelli della coppia referendaria su divorzio e aborto. Analizzando il risultato del primo, lo scrittore fu un impietoso profeta di quanto accadeva. Lontano dall’essere una affermazione delle sinistre e dei radicali e una sconfitta della Chiesa e della Democrazia Cristiana, la vittoria dei favorevoli al divorzio, dietro la maschera di una mentalità laica moderna e progressista, nascondeva un’etica dei consumi subdola e spietata. Il nuovo potere, per espandersi e rafforzarsi, doveva eliminare non solo la vecchia morale cattolica e le sue modeste abitudini, ma anche le ideologie di ispirazione marxista, certamente lontane dai valori della Chiesa, ma dal carattere ugualmente anti-capitalista e anti-consumista.

Quanto alla vittoria dei favorevoli alla legalizzazione dell’aborto, Pasolini si dichiarò «traumatizzato […] perché la considero, come molti, una legalizzazione dell’omicidio». Le parole dello scrittore sono ancora oggi forti e scandalosamente feconde. Il poeta mette in discussione il dogma del principio di maggioranza: «Che la vita sia sacra – dice – è un principio più forte ancora che ogni principio della democrazia»; «L’aborto legalizzato è […] una enorme comodità per la maggioranza», ma «non c’è un solo caso in cui i ‘principi reali’ coincidano con quelli che la maggioranza considera propri diritti. […] La maggioranza, nella sua sanità, ha sempre torto: perché il suo conformismo è sempre, per propria natura, brutalmente repressivo».

 La sessualità


Tanto più che per Pasolini l’erosione dell’umano che la società dei consumi porta con sé non risparmia neanche la sfera intima. La «comodità della maggioranza» nella volontà abortista consiste infatti innanzitutto nel rendere «più facile il coito […]». Ma questa permissività nei riguardi della sessualità è promossa da abitudini utili al potere dei consumi, che «si è impadronito dalle esigenze di libertà […] liberali e progressiste e, facendole sue, le ha vanificate, ha cambiato la loro natura. […] La libertà sessuale della maggioranza è in realtà una convenzione, un obbligo, un dovere sociale, un’ansia sociale, una caratteristica irrinunciabile della qualità della vita del consumatore. Insomma, la falsa liberazione del benessere, ha creato una situazione altrettanto e forse più insana che quella dei tempi della povertà. Infatti […] la facilità ha creato l’ossessione; perché è una facilità “indotta” e imposta, derivante dal fatto che la tolleranza del potere riguarda unicamente l’esigenza sessuale espressa dal conformismo della maggioranza».

E oggi?


Nell’orizzonte della comunicazione, ad oggi, non si vede alcun tentativo di offrire ai lettori la profondità di visione che Pasolini (ma c’erano anche i Bianciardi, i Calvino, gli Sciascia…) proponeva trentacinque anni fa. Eppure è proprio l’analisi di Pasolini a denunciarne la necessità. Affinché si provi a contrastare l’omologazione culturale, l’istupidimento collettivo e lo stordimento intellettuale, sono necessari esperimenti critici, esercizi di intelligenza e approfondimenti delle dinamiche di fondo.

Contro l’equivoco del “dare le notizie” e dell’imparzialità del racconto, gli organi di stampa dovrebbero ridarsi un progetto culturale, una scelta di valori, una visione del mondo, e proporla, argomentarla, discuterla.

Il non avere la cultura e l’intelligenza profonda di Pasolini non deve spaventare: anche sbagliando o cadendo in ingenuità si può offrire un contributo, aprire un dialogo, fecondare uno spunto, preparare la strada a soluzioni nuove, ma ancora lontane da venire.