Il corsaro e il potere

Tra il 1973 e il 1975 Pasolini opera, sul «Corriere della Sera», una serie di incursioni (non a caso definisce Corsari quegli scritti), sotto forma di analisi della società e del costume. Obiettivo dell’assedio il suo unico grande nemico: il Potere.

Scritta proprio con la maiuscola, la parola gli serviva innanzitutto per definire quel complesso di “mutazioni antropologiche” che il tradizionale paradigma della “borghesia” stentava a contenere. Il nuovo Potere era il consumismo omologante che si andava affermando (anche grazie alla televisione) mosso dalla spinta del boom economico. Un potere ostile all’uomo perché uniforma i desideri di tutte le classi in funzione di interessi che si trovano sempre altrove rispetto alla vita di ognuno.

L’avvento di questo “altrove” accade, per Pasolini, quando il mondo legato alla realtà dei fatti scompare dall’orizzonte collettivo. Come l’inquinamento atmosferico per le lucciole, l’omologazione culturale ha ucciso o spinto al margine la varietà della lingua e della cultura, il radicamento del popolo in usi che gli sono prossimi e propri, la sua Chiesa ed ogni altra forza intenda difendere le innate diversità degli uomini. Un vuoto di senso che serve per far posto all’edonismo, più violento e totalitario dei fascismi perché non si impone dall’esterno, ma dall’interno della società, manipolandone in maniera decisiva i desideri per ottenere un’unica, piatta e desolante tristezza.

Naturalmente Pasolini sapeva che il Potere c’è sempre stato; ciò che egli denuncia lucidamente è che dopo le sue forme storiche, ideologiche e politiche, superata la necessità autoritaria delle dittature del XX secolo, questo si mostra nel nostro tempo nella sua forma “ultima” e onnicomprensiva. Un “Potere unico”, che manipolando il desiderio dell’uomo lo riduce a sé e per ciò stesso lo annienta.

Per questo il Potere va scritto con la maiuscola: perché il dio dell’oggi, l’ultimo dio, è la mentalità omogenea cui siamo tutti ridotti, perché da essa tutti veniamo plasmati. Persino fisicamente vogliamo diventare (siamo diventati) tutti “uguali”. In senso antitetico al riconoscere gli uomini pari per dignità e quindi insostituibili ed essenziali, il Potere li vuole pari per funzione e per ciò stesso sostituibili, strumentali, inessenziali.

Cosa direbbe oggi, trentacinque anni dopo, il corsaro Pasolini? A lui che aveva previsto il naufragare dei conflitti tra fascismo, anti-fascismo, comunismo e cattolicesimo nel mare edonistico dei consumi di massa, che profeticamente intuiva come all’omologazione della lingua e della cultura corrisponda, soprattutto, un panorama di desideri identici e predigeriti, non resterebbe forse, oltre allo sgomento di aver avuto ragione, che l’ultimo scandalo di denunciare quell’etica invocata da tutti come collante e rimedio per ogni supposta perversione del sistema (dalla crisi economica a quella di governo), mentre nel proprio intimo è l’affermazione definitiva del Potere unico, che in quanto tale è etico per definizione.

Quanto alle soluzioni, appare a frammenti, proprio negli Scritti Corsari, la proposta per organizzare una Resistenza al Potere: lo sforzo per leggere in modo leale la realtà («senza senso comune la razionalità è fanatismo») alla ricerca di rapporti umani autentici, in grado di promuovere quell’amore per la vita, quell’allegria che essendo antitetica al “divertimento” imposto e imperante, il Potere che omologa odia.

«Non è la felicità che conta? – si domandava Pasolini – Non è per la felicità che si fa la rivoluzione?».