Italia

Oggi il Consiglio dei ministri. I pugni sul tavolo di Draghi

Sul milleproroghe la maggioranza quattro volte contro il governo. E il centrodestra fa saltare il tetto al contante L’ira del premier che prima 'avvisa' Mattarella e poi convoca i capidelegazione

La serietà della vicenda è tutta nella cronologia dei fatti: rientrato in fretta e furia da Bruxelles, il premier Mario Draghi va dritto al Quirinale da Sergio Mattarella per metterlo al corrente di ciò che sarebbe accaduto alle ore 18: il primo, vero aut aut ai partiti. Che arriva, puntuale, in una anomala riunione con i capidelegazione convocata a tamburo battente e durata appena 30 minuti. Draghi è tassativo: «O si garantiscono i voti in aula o non si va avanti. Questo governo non serve per restare al potere – dice caricando la voce sulla parola ‘potere’ – non serve per difendere interessi di parte, serve per fare delle cose utili al Paese. Il presidente Mattarella mi ha chiamato per fare questo lavoro, se non si può più fare ne trarrò le conseguenze».

L’ira si giustifica con quanto accaduto nella notte in commissione alla Camera, dove si analizzava il decreto milleproroghe. Per ben quattro volte il governo finisce sotto nelle votazioni. E su due temi centrali passano emendamenti che sovvertono la linea politica dell’esecutivo. Il primo è il rinvio al 2023 del tetto di mille euro al contante, una modifica votata da Lega, Fdi e Fi nel nome della compattezza del centrodestra. Per il premier non è giustificabile. Ma ancora meno giustificabile è, ai suoi occhi, quanto accade su Ilva. Una norma del governo aveva spostato 575 milioni, il cosiddetto tesoretto dei Riva, dalle bonifiche alla decarbonizzazione. In commissione Pd, M5s, Leu e Iv hanno abrogato la misura e riportato i fondi al loro scopo originario, le bonifiche. E in fila indiana ciascun partito di centrosinistra ha rivendicato la scelta.

Draghi, invece, è furente. La prima scelta dell’esecutivo, spiega Palazzo Chigi, aveva e ha ricadute occupazionali importanti. E va ripristinata in aula. Come e più del tetto al contante. E l’indicazione viene data dal premier al ministro per i Rapporti con il Parlamento, Federico D’Incà, esponente M5s che quindi dovrà sfidare anche l’esultanza del suo presidente Giuseppe Conte proprio sull’emendamento- Ilva. Nel breve colloquio al Colle che precede la turbolenta cabina di regia, il presidente Sergio Mattarella può fare poco più che solidarizzare con il premier. Certo ne comprende le ragioni. Né può, Mattarella, chiedere a Draghi di vivacchiare fino alla fine della legislatura. Insomma il premier in qualsiasi momento ha la licenza di togliere il disturbo. I ministri presenti alla riunione Patuanelli, Giorgetti, Gelmini, Orlando, Bonetti e Speranza provano a porre il tema del «metodo», in sostanza derubricano l’accaduto a dinamiche parlamentari e invitano il premier a prevenirle «coinvolgendo i capigruppo».

Draghi però li interrompe: «È una questione politica e non di metodo. Sulla manovra abbiamo ascoltato tutti più volte e siamo arrivati allo stesso punto». Insomma, devono essere gli stessi ministri a garantire la tenuta del governo e a evitare doppi registri tra ciò che accade in Cdm e ciò che poi accade in aula. Riguarda il contante, Ilva, le concessioni. Riguarda anche la delega fiscale, che i partiti vogliono rinviare. Riguarda la giustizia e tutte le riforme del Pnrr. Il premier non ha intenzione di lasciarsi trascinare sino all’estate e poi restare vittima, in autunno, della campagna elettorale. E fissa negli occhi alcuni ministri, in particolare Giorgetti e Patuanelli, che vivono sulla loro pelle la difficoltà di mediare con i loro leader Salvini e Conte. Mentre Enrico Letta assicura la lealtà del Pd: «Giusto il richiamo alla serietà, avanti con determinazione».

da avvenire.it