L’uomo non coincide con le sue reti neurali

Massimo Gandolfini, neurochirurgo e neuropsichiatra: “Il fatto che oggi conosciamo tantissime cose nuove sul cervello deve fare abbandonare la supponenza, in ambito scientifico, di pensare che adesso abbiamo compreso tutto, che non esiste più nessuna area di ignoto e di mistero. Al contrario, tanto più scopriamo del cervello, tanto più si dischiude l’orizzonte della dimensione spirituale dell’uomo”.

La riflessione sulla neuro-teologia chiama in causa gli sviluppi delle neuroscienze che sempre più, grazie al contributo delle tecnologie, spostano in avanti la frontiera delle conoscenze. Così che “le neuroscienze organiche hanno ceduto il passo alle cosiddette neuroscienze cognitive”. Ne parliamo con Massimo Gandolfini, neurochirurgo e neuropsichiatra, direttore del Dipartimento di Neuroscienze della Fondazione Poliambulanza di Brescia, vicepresidente nazionale dell’associazione Scienza e Vita.

Professor Gandolfini, gli ultimi decenni hanno conosciuto uno sviluppo esponenziale delle cosiddette neuroscienze. Qual è in realtà lo stato dell’arte?

“Negli ultimi vent’anni, le neuroscienze si sono sviluppate molto soprattutto grazie ad un notevole impulso tecnologico; in particolare sono cresciute le capacità diagnostiche in ambito neurologico, sia attraverso l’impiego di nuove tecniche di neuroimaging (soprattutto la risonanza magnetica funzionale) che permettono di ‘fotografare’ il cervello in funzione, sia attraverso le tecniche neurofisiologiche (stimolazione magnetica transcranica) che studiano il funzionamento biochimico ed elettrico del cervello. In sintesi, siamo passati dalla capacità di effettuare una ‘fotografia statica’ del cervello (descrizione anatomica e morfologica) alla possibilità di fare una ‘fotografia dinamica’ delle aree cerebrali in funzione durante l’esecuzione di compiti elementari e complessi, e così le neuroscienze organiche hanno ceduto il passo alle cosiddette neuroscienze cognitive”.

Nel suo recente libro “I volti della coscienza” lei sottolinea la tendenza delle neuroscienze odierne ad orientare i propri sforzi conoscitivi verso la conoscenza delle “funzioni simboliche di ordine superiore” (coscienza, mente, memoria, emozioni, sentimenti, sogni, volizione). A suo parere, con quali finalità?

“In effetti, le neuroscienze cognitive si pongono l’ambiziosissimo traguardo di studiare quelle che classicamente venivano chiamate ‘funzioni simboliche di ordine superiore’, oggi più sinteticamente indicate come funzioni cognitive. La finalità primaria è certamente quella di conoscere sempre di più e meglio il nostro sistema nervoso centrale. Ma a questo si può accompagnare un rischio riduzionistico che frequentemente si palesa in una parte del mondo scientifico, quello cioè di pensare che la persona umana possa essere determinata da un suo unico organo o apparato, pur nobilissimo come è il cervello, ma certamente insufficiente per spiegare la complessità della persona umana. Per cui, se da una parte c’è lo scopo di conoscere sempre di più, dall’altra parte bisogna guardarsi dal rischio di riduzionismo, con la tendenza a pensare che l’uomo coincida con le sue reti neurali e l’organizzazione anatomo-funzionale del cervello”.

Il concetto di “coscienza” ha storicamente rivestito significati diversi. Nell’orizzonte delle neuroscienze, cosa si intende con questo termine?

“Il concetto strettamente neurologico organico di coscienza si riferisce sostanzialmente alla capacità dell’uomo di esser vigile e, contemporaneamente, di essere consapevole sia dell’ambiente esterno che di quello interno. Quindi, le due componenti della coscienza in senso strettamente neurologico sono vigilanza e consapevolezza. Non c’è dubbio che le neuroscienze abbiano fatto enormi passi avanti nello studio delle caratteristiche neurologiche della coscienza. Ad esempio, negli anni ’90 lo stato vegetativo veniva definito come uno stato di assenza di coscienza; oggi, attraverso le tecniche di neuroimaging, si è potuto vedere che non è così, nello stato vegetativo è presente una forma di coscienza non comunicabile o interna”.

Qual è la differenza tra “coscienza psicologica” e “coscienza morale”? Che relazione c’è tra le due?

“La coscienza psicologica è sostanzialmente assimilabile alla coscienza neurologica di cui abbiamo già parlato. Per coscienza morale, invece, si intende la capacità di ciascuno di noi di conoscere il bene e il male e di scegliere per l’uno o per l’altro. Possiamo dire che la coscienza psicologica in qualche modo fa da supporto alla coscienza morale, nel senso che la sua integrità e il suo corretto funzionamento sono indispensabili per l’esercizio efficace della coscienza morale, attività decisamente più complessa ed evoluta della prima. A questo proposito possiamo rilevare una differenza importante tra l’uomo e gli altri animali. Gli animali agiscono fondamentalmente per istinto, una sorta di spinta interna che li spinge ad una determinata azione esercitata inconsapevolmente, senza possibilità di modularla, finendo per essere determinati dall’istinto stesso. Per l’uomo invece bisogna più correttamente parlare di pulsioni; l’uomo ha delle pulsioni interne (es. autoconservazione, mantenimento della specie, ecc.), ma a differenza degli animali può regolarle e controllarle attraverso la volizione e la libertà di scelta, cioè attraverso l’esercizio della coscienza morale, che può indicare al soggetto un comportamento perfino opposto a quello suggerito dalla pulsione (ad esempio, rispondere al male col perdono)”.

Quale rapporto esiste tra il cervello, inteso come insieme complesso di strutture e funzioni neuronali, e la coscienza, come dimensione profonda della persona?

“Come indica il sottotitolo del mio libro, il cervello è condizione necessaria ma non sufficiente per l’elaborazione del pensiero e della coscienza intesa in senso morale. Il cervello da solo, con le sue caratteristiche anatomiche, è una complessissima ed affascinante macchina che fa da supporto alla globalità della coscienza umana, ma che non la spiega totalmente. L’interpretazione strettamente neurofisiologica e neuroscientifica è insufficiente quando si tratta affrontare il senso stesso dell’umano, il senso della vita, il senso della persona. Come affermava giustamente Edmund Husserl, padre della fenomenologia, la materia non può pensare se stessa”.

Alla luce delle più attuali acquisizioni delle neuroscienze, ha ancora senso parlare di dimensione spirituale dell’uomo?

“Non solo ha ancora senso, ma mi lasci dire che ha ancora più senso. Fin dagli inizi dei miei studi di medicina mi affascinò una riflessione del grande medico Louis Pasteur, il quale affermava, da credente, che tanta scienza apre l’orizzonte a Dio, poca scienza chiude l’orizzonte a Dio. Il fatto che oggi conosciamo tantissime cose nuove sul cervello deve fare abbandonare la supponenza, che molte volte abbiamo in ambito scientifico, di pensare che adesso abbiamo compreso tutto, che non esiste più nessuna area di ignoto e di mistero. Al contrario, tanto più scopriamo del cervello, tanto più si dischiude l’orizzonte della dimensione spirituale dell’uomo”.