La neuro-teologia limita lo scientismo

La psicologa e psicoterapeuta Maria Beatrice Toro: “Oggi possiamo distinguere anche sul piano neurologico l’esperienza religiosa da qualunque altro tipo di esperienza, come la conoscenza sensoriale, o quella logico-razionale. Naturalmente, l’interpretazione dei dati diventa oggetto di dibattito”. Perché la psicanalisi freudiana sbaglia quando parla di religione come “errore del cervello”.

Nel tempo, si potrà conoscere in maniera sempre più accurata come funziona il nostro cervello mentre viviamo un’esperienza di fede, grazie anche al contributo degli studi di neuroimaging che consistono proprio nel visualizzare il cervello in vivo durante le esperienze spirituali e religiose, potendo così individuare quali sono i meccanismi fisiologici e le strutture cerebrali coinvolti. Tutta materia per la cosiddetta neuro-teologia. Approfondiamo il tema con la professoressa Maria Beatrice Toro, psicologa e psicoterapeuta, docente di psicologia di comunità presso la Lumsa, che si è occupata a lungo dell’argomento.

Professoressa Toro, che cosa è la neuro-teologia? Di cosa si occupa?

“La neuro-teologia è una recente branca delle neuroscienze. Queste, attraverso alcune metodiche di neuroimaging e strumentazioni, ci consentono oggi di studiare non soltanto l’anatomia del cervello, ma anche i suoi aspetti fisiologici e funzionali. In altre parole, le neuroscienze ci consentono di collegare l’attivazione delle diverse aree del cervello all’esperienza soggettiva umana. Per quanto riguarda la neuro-teologia in particolare, gli studi di neuroimaging consistono proprio nel visualizzare il cervello in vivo durante le esperienze spirituali e religiose, potendo così individuare quali sono i meccanismi fisiologici e le strutture cerebrali peculiarmente coinvolti in esse”.

Quali sono a suo avviso i possibili sviluppi di questa nuovo campo di ricerca?

“Credo che, nel tempo, potremo conoscere in maniera sempre più accurata come funziona il nostro cervello mentre viviamo un’esperienza di fede. Ad esempio, un risultato molto importante che le neuroscienze applicate al campo dell’esperienza spirituale hanno prodotto è stata la scoperta che l’attivazione che si ha nel cervello durante le esperienze spirituali intense assume una forma peculiare, specifica, che non assomiglia a nessun’altra esperienza analoga. Dunque, possiamo distinguere anche sul piano neurologico l’esperienza religiosa da qualunque altro tipo di esperienza, come la conoscenza sensoriale, o quella logico-razionale. Naturalmente, l’interpretazione dei dati ottenuti dalla neuro-teologia diventa poi oggetto di dibattito, specialmente tra credenti e non credenti”.

Esiste un rapporto diretto tra la conoscenza sempre più approfondita della funzione delle strutture cerebrali e la conoscenza della dimensione spirituale dell’uomo?

“In generale, sono un po’ scettica riguardo al fatto che possa esserci un rapporto diretto tra ricerca scientifica, teorie scientifiche, metodi sperimentali e l’oggetto della ricerca scientifica stessa, che in fondo è sempre l’uomo e la sua verità. Nel tempo, ci sono state mode scientifiche che ci hanno fatto credere in qualche modo di poterci condurre alla verità; penso ad esempio alla genetica, nel passato decennio, quando si era diffusa l’idea che ci fosse un gene per ogni cosa. Oggi sono più ‘di moda’ le neuroscienze e sembra che per ogni esperienza ci sia un circuito cerebrale, il circuito della depressione, il circuito dell’allegria, il circuito della felicità. Si tratta di un’indebita semplificazione. Esiste sicuramente un rapporto interessante fra alcune funzioni del cervello e alcune esperienze che noi facciamo, in particolare le esperienze religiose, però se spostiamo la domanda sull’oggetto dell’esperienza religiosa, sul suo contenuto, allora finisce il compito delle neuroscienze e subentra il contributo di altre discipline come la filosofia o la teologia”.

Intravede dei limiti intrinseci nel dibattito attuale sulla neuro-teologia, di fatto polarizzato su due posizioni estreme e contrapposte?

“In realtà, penso che entrambi le posizioni siano un po’ forzate, a volte forse un po’ troppo imbevute di aspetti ideologici. Se dobbiamo rimanere alla scoperta dei circuiti neurofisiologici dell’esperienza religiosa, potremmo dire che, anche se sappiamo come si attiva ogni singolo circuito durante un’esperienza ad esempio di pratica meditativa, comunque il senso del mistero di tale attività sopravvive. Tutta la visualizzazione del cervello che possiamo realizzare non ci darà mai un’informazione sull’oggetto dell’esperienza, ma solo un’informazione su come funzioniamo noi. Il senso profondo da dare a questi dati è una scelta soggettiva. A mio parere, nella nostra epoca post-moderna, la contrapposizione radicale tra fede e ragione, di stampo scientista, riceve un colpo durissimo dalla neuro-teologia, la quale contribuisce a mostrare come si tratti di due modalità di conoscenza diverse ed integrabili, non contrapposte”.

Secondo la psicanalisi freudiana, la religione era da classificare come “nevrosi ossessiva” o più semplicemente “illusione”, una sorta di “errore del cervello”. Oggi, alla luce della moderne neuroscienze cognitive, è ancora giustificabile un’affermazione del genere?

“A mio parere no, perché se fosse un errore cognitivo dovremmo trovare le stesse attivazioni cerebrali che si riscontrano quando si hanno delle illusioni ottiche, delle percezioni erronee, ecc. In realtà, i circuiti attivati durante le esperienze spirituali e la modalità con cui si attivano sono completamente differenti. Quindi dire che si tratti di un malfunzionamento della razionalità non ha proprio più senso. Anzi, in base al contributo delle moderne neuroscienze, si può affermare che, proprio per come funziona il nostro cervello, l’esperienza del trascendente continuerà a caratterizzare gli esseri umani. Finché il nostro cervello avrà questa struttura noi saremo in grado di vivere questo tipo di esperienza e di distinguerla nettamente da quelli che possono essere classificabili come errori del pensiero”.

Secondo una recente ricerca da Lei coordinata, risulta non esserci correlazione tra la propensione verso la spiritualità ed i tratti di personalità di ciascuno, nel senso che non ci sarebbe un carattere più portato di un altro all’accettazione e all’apertura spirituale. Ritiene che possa esistere invece una correlazione tra struttura del cervello (correlati neurali) e capacità spirituale?

“Forse si può trovare qualcosa di analogo anche a livello neurofisiologico. A mio modo di vedere, ci sono delle differenze individuali che fanno sì che anche la percezione della dimensione religiosa possa avvenire per ciascuno con delle modalità personalizzate; è possibile che alcune persone siano più portate verso le pratiche meditative e religiose, come altre persone possono essere più portate verso un’esperienza di fede orientata alla vita attiva e all’impegno nel mondo. Credo che probabilmente esistano dei correlati cerebrali che spiegano le differenze delle inclinazioni delle persone, ma non c’è nessuno con un cervello normofunzionante che possa essere definito a priori come ‘impermeabile’ all’esperienza del trascendente”.