L’assenza del padre

L’assenza del padre, intesa come mancato esercizio di una funzione che spesso degenera in una sostanziale assenza è, da qualche tempo, tra i fenomeni emergenti all’interno della società contemporanea. Il contesto sociale non ne è responsabile, ma contribuisce comunque a creare lo scenario delle opportunità. Dinanzi alla leadership di un io onnipresente e insofferente, nel primato dell’autoreferenzialità di ciascuno, la guida paterna sembra girare a vuoto. Abituati per secoli a trasmettere eredità materiali e principi morali i padri, sempre più privi delle prime, si sentono sempre meno autorevoli nel trasmettere i secondi.

Dinanzi a questo quadro non manca chi, come Michele Serra e Claudio Bisio – due testimoni esemplari della cultura diffusa dominante – se ne fanno una ragione e si congedano felicemente da una figura e da un ruolo percepiti come ingombranti e, soprattutto, rivelatisi poco credibili e in ultima analisi inefficaci. Le tesi di Serra e Bisio (si veda il loro dialogo nella Repubblica delle idee, in una piazza stracolma a Genova) non sono affatto peregrine e sono ampiamente condivise. Il terreno della sconfitta sembra essere quello dei comportamenti e dei principi che dovrebbero sostenerli. Dalle relazioni sessuali provvisorie, purché emozionalmente coinvolgenti, all’assoluta indifferenza verso gli ambienti di vita quotidiana, nel primato di un io che si percepisce nella più completa libertà di poter disporre di sé come del proprio corpo, la generazione dei figli sembra aver fatto proprio quel “vietato vietare” che tanto ci appassionò decenni fa. Appropriazione culturale che, ovviamente, priva i padri di qualsiasi autorevolezza togliendo loro il bastone del comando, cioè il potere di divieto.

Constatando il successo della controcultura alternativa che loro stessi hanno prodotto, Serra e Bisio si complimentano a vicenda, celebrando il relativismo etico della paternità e, visto che ci siamo, dichiarando l’ingresso nell’era del dopo-padre. Ovviamente alla base di quest’errore ci sono due spettacolari riduzioni: la prima è quella che riduce l’educazione a dei divieti, la seconda è quella che ignora il principio fondamentale della paternità che è il desiderio di avere un figlio. Per precisare il primo aspetto si può osservare come manchi completamente l’idea – peraltro ben spiegata da Massimo Recalcati nel suo “Il complesso di Telemaco” – di quell’importante supporto dell’autorevolezza fornito dalla funzione della testimonianza.

Restringere l’educazione alla possibilità di dare divieti ignora il fatto decisivo di un padre che, prima ancora di dare ordini, ha bisogno di essere autorevole, e l’autorevolezza, per essere tale, richiede la coscienza di cosa si è costruito e del perché lo si è fatto, chiede la testimonianza di un vita coscientemente vissuta e coerentemente praticata. Solo il testimone ha diritto ad essere autorevole.

Il padre è tale quando è autorevole, ed è autorevole quando si rende testimone credibile dei valori che persegue, non tanto quando li impone. I valori non si impongono mai, perché nascono da un desiderio di relazione. Negli anni Settanta, quando i giovani rincasavano all’alba, si vergognavano di incrociare quanti, alla stessa ora, andavano al lavoro: erano i testimoni di una vita responsabile ed autentica. Non c’era il bisogno di avere divieti, se lo vietavano da soli e dopo un po’ hanno iniziato a tornare a casa prima, se non altro per essere degni di quelle persone che incrociavamo. Un altro mondo. E non è fantascienza. I valori saranno anche scritti nel cielo delle idee e sostenuti dalle dottrine di salvezza, ma nascono e maturano nel solido desiderio di relazione con il mondo reale. Ed i nostri padri si sforzavano, invano, di farcelo capire. Alla base di questa loro inefficacia – ed è il secondo aspetto ignorato dalla vulgata contemporanea – c’era la nostra incapacità di riconoscere il desiderio iniziale che li aveva alimentati: la gioia dell’essere padri e di avere un figlio da crescere, al quale insegnare ad andare nel mondo, dove tutto il rapporto si gioca nei primi anni di vita, quando si rientra a casa la sera e nei fine settimana, nel quadro di una relazione solida e stabile con la loro madre.

L’adolescenza è il momento della crisi, ma è una separazione di breve durata, è la normale esigenza dell’esplorare e del vedere. Anche se – ed è questo il vero problema che si apre – quest’esigenza può far correre oggi rischi un tempo assolutamente inesistenti. Ma ignorando il valore della testimonianza Serra e Bisio passano sotto silenzio anche il desiderio di relazione connesso alla paternità. Per Michele Serra l’equazione è chiara: come i figli debbono liberarsi dai genitori anche quest’ultimi debbono liberarsi dai figli, minimizziamo quindi le relazioni anziché valorizzarle. Come se Ulisse non avesse avuto bisogno del pensiero di un Telemaco per tornare a casa, come se Telemaco non avesse avuto bisogno di un Ulisse da attendere, per desiderare di crescere e rendersi degno del suo ritorno. Si gioca tutta qui la partita con un affronto sempre più pesante, tra gender delirante, colonizzazione ideologica e immagine di famiglia ormai relegata a cornice per il comodino. E poemi come l’Odissea non servono più, manco fossero favole, per indicare una traccia di vita, valida ieri e, ahimé, non più oggi.