Cultura

L’anniversario: Buzzati e il varco che porta all’«altrove»

Moriva 50 anni fa lo scrittore, che aveva chiamato in mille modi “l’ultimo viaggio”. Nella sua opera una profonda etica cristiana

“Dino Buzzati, scrittore sommo, nato il 16 ottobre 1906, morto per caduta da cavallo il 30 febbraio 2017”. E’ l’epigrafe che lo scrittore bellunese/milanese immaginava, con la consueta ironia un po’ macabra, molti anni prima che la morte lo reclutasse davvero il 28 gennaio del 1972 (un pomeriggio nevoso), nella clinica milanese La Madonnina, stanza 201. Il 30 febbraio, dunque, e alla bella età di 111 anni: numeri scelti nella sua “cabala” immaginifica, creature anch’essi dello scrittore/giornalista che persino la cronaca nera trasferiva nel genere fantastico.

Cinquant’anni fa oggi, Buzzati partiva davvero per quell’“ultimo viaggio” che durante l’intera esistenza aveva immaginato, atteso, temuto e per il quale aveva coniato mille metafore, sia nelle pagine scritte sia in quelle dipinte (quadri o racconti erano per lui momenti interscambiabili della stessa ispirazione): la “grande partenza”, la “cartolina di precetto”, l’“ordine superiore”. “Lei”.

Nell’immaginario collettivo Buzzati resta prima di tutto l’autore di Il deserto dei Tartari (1940), l’affascinante romanzo dell’attesa, la cui trama, apparentemente immobile, ci tiene con il fiato sospeso fino all’ultima pagina accanto ai soldati che invecchiano nella Fortezza Bastiani aspettando i Tartari, quel nemico che finalmente porterà l’Evento agognato, la gloria, il riscatto di un’esistenza altrimenti inutile. Ma in realtà era tutto un inganno: nel finale i Tartari arrivano davvero, l’armata attesa da tempi immemori si profila all’orizzonte del deserto, proprio quando il maggiore Giovanni Drogo, ormai malato e inutile, è rimandato in città. Sembra una sconfitta la sua, ma non è così: nella solitudine di una locanda scopre che “la grande occasione”, “la definitiva battaglia che poteva pagare l’intera vita” la stava combattendo lui, non contro mediocri nemici in carne ed ossa ma di fronte alla morte. “Valica con piede fermo il limite dell’ombra, dritto come a una parata, e sorridi, se ci riesci”, dice Drogo/Buzzati a se stesso, mentre “lei” si avvicina alla poltrona e Drogo “sorride”, ultima parola del Deserto dei Tartari.

Il Deserto capolavoro di Buzzati, dunque. Ma le stesse tematiche care all’autore si ritrovano nell’intera sua produzione, dalle prime opere giovanili fino alle ultime pagine scritte a mano su due agende durante il ricovero, tra il dicembre del 1971 e il gennaio del 1972: fedele come un soldato obbediente alla consegna, Buzzati per decenni ricrea lo stesso sortilegio che cattura anche noi. Che sia attraverso i racconti o i dipinti o gli articoli di cronaca, attira il lettore nel suo vortice di misteri, di varchi verso un “altrove” indefinito, di “occasioni” perdute o raramente còlte prima che sia “troppo tardi” (stilema questo quasi ossessivo). E’ come se per tutta la vita avesse continuato a riscrivere in più forme il Deserto dei Tartari (d’altra parte è lui stesso nel 1966 ad ammettere che è «il libro della mia vita perché quando stavo scrivendolo capivo che avrei dovuto continuare a scriverlo per tutta la durata della mia esistenza e concluderlo solo alla vigilia della morte». Persino in un romanzo così “diverso” come lo scabroso Un amore (1963), dietro la storia dell’(autobiografico) rapporto tormentato tra un maturo professionista e la giovanissima Laide traspare spesso il fremito di un presagio (“Tutto ciò che ci affascina nel mondo inanimato si carica di significato umano perché contiene un presentimento d’amore. L’erma cappelletta al bivio perché avrebbe tanto pathos se non vi fosse nascosta un’allusione?”). E nell’ancora più spinto Poema a fumetti (1969) – oltre duecento tavole disegnate in cui Buzzati porta ai giorni nostri il viaggio agli Inferi di Orfeo ed Euridice –, il trasgressivo stile della pop art diventa struggente epopea delle domande che ogni uomo si pone sulla vita e sulla morte.

E’ per questa sua coerenza che Buzzati o lo si ama tutto o lo si odia tutto, non è autore da mezze misure, e oggigiorno sempre più appassiona lettori di ogni età, specie le giovani generazioni che lo sentono vicino. Se ai posteri tocca sempre l’ardua sentenza, ai lettori del Duemila la scrittura di Buzzati appare ancora (e sempre più) una delle voci più geniali del Novecento, impossibile da “incasellare” in una qualsiasi corrente culturale perché sempre originale e diversa da tutte. Talmente attuale da risultare all’epoca poco comprensibile a certa critica, immatura e impreparata a decifrarne la modernità.

Ci catturano ancora oggi non solo il Barnabo delle montagne degli esordi (1933), il favolistico Il segreto del Bosco Vecchio (1935), il fantascientifico Il grande ritratto (1960), ma soprattutto i numerosi racconti, così pieni delle nostre inquietudini, sferzanti nel mettere a nudo le meschinità dell’essere umano ma anche commossi di fronte al respiro della sua anima. Caustici e umoristici insieme, raccontano ad esempio allucinate fini del mondo (dove va in scena l’ipocrisia di una umanità improvvisamente devota e a caccia di un confessore), draghi uccisi per la protervia di uomini insensati, treni che ci portano via in una folle corsa (“troppo tardi”, non torneranno), destini che si gonfiano alle nostre spalle e bussano ineluttabili (“Pure battono alla porta… Un messaggero forse, uno spirito, un’anima, venuta ad avvertire… Ci usano dei riguardi, alle volte, quelli dell’altro mondo…”). Ma anche istanti di infinito che a tratti Buzzati riesce a sfiorare (“Laggiù all’orizzonte sulle acque amare, deserte, naviga certe sere Dio con una sua barchetta, invisibile passerà accanto a te che nuoti disperato (può darsi benissimo) e ti toccherà con la sua mano”).

Proprio gli oggetti più banali si caricano di un significato “altro”, che sia il rombo di una frana di notte tra le montagne, o un campanello che suona insistente (“questo forse il motivo perché certe scampanellate alla porta, esattamente identiche alle altre, ci fanno battere il cuore”), o magari una goccia, normalissima se non fosse che questa sale lungo le scale di un condominio (“è semplicemente una goccia, solo che viene su per le scale. Tic tic, misteriosamente, di gradino in gradino. E perciò si ha paura”). Ma solo agli umili è dato decifrare tali messaggi: sono servette, contadini, mendicanti, prostituite, storpi, bambini, a cogliere il mistero, mentre potenti e facoltosi restano ciechi e sordi. C’è una profonda etica cristiana nelle pagine del non credente Dino Buzzati, per tutta la vita alla ricerca di Dio (“ne è nato un vuoto spaventoso, che è la tragedia del mondo moderno”, dice della mancanza del desiderio di Dio nel 1965). “Di fronte alla paura della morte – scrive nel 1941 inviato di guerra per il Corriere della Sera – unico sistema mi pare quello che Dio mi desse la fede. Allora diventerei forte non solo di fronte alla morte, bensì ai dolori di ogni genere, alla miseria, alle delusioni, alle tristezze che procura il tempo”. E’ l’identica domanda che esattamente trenta anni dopo negli ultimi 51 giorni di vita alla clinica La Madonnina rivolge a suor Beniamina, giovanissima infermiera come lui venuta dalle montagne. L’abbiamo incontrata qualche anno fa, dopo aver ripercorso i corridoi di quella clinica e la stanza 201: “Parlammo tanto – ci disse –, voleva carpire il segreto della fede, me la invidiava e lo confessava espressamente. Diceva di averla persa, ma non smetteva un istante di cercarla”. E’ la moglie Almerina ad averci raccontato il seguito: nel pomeriggio del 28 gennaio non volle comportarsi come i personaggi della sua Fine del mondo, non cercò un confessore, ma chiese a suor Beniamina di chinarsi su di lui e baciò il crocifisso che le pendeva al collo. Sul comodino I pensieri di Pascal (“Tu non mi cercheresti se non mi avessi già trovato”, è il pensiero 553).

Si può dire con certezza che la sua è la poetica degli umili, tra i quali si poneva lui stesso per naturale disposizione d’animo, anche quando era ormai celeberrimo e adulato dai salotti della Milano bene. “Prima di tutto io metto la bontà. Prima anche dell’arte”, rivelò nel 1971 a Yves Panafieu che lo intervistava, e a chi gli chiedeva quale fosse il suo maggiore pregio non esitava a dire “come uomo l’onestà. Modestamente parlando”. Aveva trionfato al Premio Strega (1958) ma al Corriere continuava a lavorare come l’ultimo cronista, seguendo anche la cronaca spicciola (e facendone alta letteratura). Con lo stesso impegno scriveva gli immortali elzeviri in terza pagina come le risposte ai bambini sul Corriere dei Piccoli.

Dietro draghi, babau e altre creature fantastiche, celava un lucido realismo quasi profetico. Nel 1966, in Cronache del 2000, immaginò una futura Milano invasa dai “teletini”, un “malcostume diffuso da pochi mesi”, “telefoni-televisori tascabili con i quali è possibile parlare e vedersi. Una moda diventata una sorta di frenesia”. E quante pagine o quadri dipinti decenni fa sono l’impressionante anticipazione del coronavirus, esserino infinitesimale, piccola cosa in fondo, quasi naïf, che si insinua “negli interstizi” e mette in ginocchio un’umanità di colpo fragile e non più sicura di sé… Stupisce allora che quando uscì il suo ultimo libro di racconti, Le notti difficili (1971), Giorgio Bocca sul Giorno lo descrisse come un reazionario “che si balocca con le favole e che rifiuta il nuovo perché non lo capisce”…

Chissà la faccia dei colleghi, il 28 gennaio di 50 anni fa, quando estrassero dagli archivi del Corriere il “coccodrillo” pronto da anni per la sua morte: “E fu inoltre il più grande pittore del XX secolo”, aveva aggiunto in penna lo stesso Buzzati, sceso di nascosto a leggere che cosa avrebbero scritto di lui.

Il commento più vero il 29 gennaio 1972 sul Corriere spettò a Indro Montanelli, amico sincero: “Se n’è andato così alla Buzzati, che alla Buzzati potrebbe anche tornare. E pure questo troveremmo del tutto naturale, come una delle sue tante magie, o l’ultimo giuoco del suo umorismo nero. Perché se un qualcosa c’è al di là di noi, nessuno se l’è guadagnato più di Buzzati, che ha trascorso la vita a captarne i messaggi e a decifrarli per noi. Ora può darsi che sia lui a lanciarcene uno…”.

Afferriamolo, prima che sia “troppo tardi”.

da avvenire.it