La solitudine sindacale e il gioco di rimessa

A guardare le organizzazioni dei lavoratori, si può avere l’impressione che si siano rassegnate a perdere e puntino all’autoconservazione.

Da diverso tempo i sindacati sono in grande attività. Il succedersi di vertenze che stentano a risolversi li tiene sempre in primo piano. Potrebbe sembrare un successo, il riconoscimento di una centralità. Ma sono in tanti a parlare di una parabola discendente. Per alcuni i sindacati sono soltanto una delle numerose caste. Secondo altri sono semplicemente obsoleti, non servono più a niente.

Vox populi, vox Dei? Meglio non esagerare. Ma tra le crisi che si trova ad affrontare, il Sindacato farebbe bene a porre anche la propria.

Ovviamente non possiamo proporre una analisi della crisi del sindacalismo in questo poco spazio. Non ne avremmo neanche titolo. Ma una tendenza generale possiamo provare ad indicarla. Ad esempio rilevando che fino a non molto tempo fa era l’impresa a cedere terreno al sindacato, cioè ai lavoratori. Oggi, invece, sono invariabilmente i lavoratori a cedere alle richieste dell’impresa. Un cambiamento nei rapporti di forza che non può lasciare indifferenti. Esige, semmai, una riflessione approfondita da parte di tutti. Le condizioni di vita di chi lavora, infatti, sono il miglior termometro per valutare lo stato di salute (o la febbre) di un Paese.

Non pensiamo certo che i sindacati siano sprovveduti. Sospettiamo piuttosto che non ce la facciano da soli ad affrontare il peso del ricatto occupazionale, a strappare garanzie per gli occupati, ad imporre una qualche tutela sul posto di lavoro ed un minimo di forza contrattuale per chi lavora. Ci sembra di poter dire che questo è un problema di tutti, un problema di civiltà prima ancora che di relazioni industriali.

Se guardiamo al mestiere dei sindacati, ci accorgiamo che vivono da vicino le mutazioni in atto nel mondo del lavoro. Sono coscienti dei cambiamenti nei sistemi di produzione. Conoscono fin troppo bene le delocalizzazioni, la frammentazione della produzione su scala internazionale, gli effetti devastanti della mancanza di regole nei mercati. Hanno ben presente anche cosa vuole dire ridurre il lavoro umano a semplice merce.

Ciò nonostante rimangono vistosamente indietro rispetto agli obiettivi che vorrebbero raggiungere. Non riescono ad organizzare azioni capaci di impensierire la loro controparte. I tentativi di difendere i salari si sono infatti tradotti nella loro riduzione e l’occupazione aumenta solo se il lavoro è precario e costa poco. Crescono invece le disuguaglianze tra i lavoratori: nord e sud, giovani e vecchi, uomini e donne, italiani e immigrati, atipici e stabilizzati. Anche la forbice tra ricchi e poveri si è allargata, mentre la spesa sociale resta bassa e quella pensionistica è la preferita dai tecnocrati quando c’è da “tagliare”.

L’azione dei sindacati mostra lacune un po’ da tutte le parti. Non stupisce che oggi stiano perdendo iscritti, forza e influenza. E in questa situazione obiettivamente difficile le organizzazioni dei lavoratori paiono quasi rassegnate a non riuscire ad andare oltre la difesa dei propri apparati. Un atteggiamento che spesso degenera nell’esercizio del privilegio e dell’arbitrio e non aiuta certo il sindacato a rappresentare al meglio lavoratori ormai alle corde.

È vero che si cerca di salvare il salvabile, di tenere duro sui problemi dell’occupazione, di affrontare le vertenze e chiudere i contratti. Ma di fronte alle continue sconfitte dovrebbe venire il sospetto di trovarsi a contrastare un nemico potente con le armi spuntate.

Forse il problema è che si è fatto poco per smontare, analizzare, indagare il progetto culturale, politico ed economico che sta dietro agli insuccessi dei lavoratori. Sembra che anche il sindacato sia convinto che la cultura dell’individualismo e della globalizzazione siano un fatto inevitabile, una legge di natura, incontrastabile.

E invece servirebbe proprio lo sforzo di teorizzare un diverso modello di società – e quindi di lavoro – verso cui puntare e attorno al quale organizzare il consenso. Una fatica nella quale i sindacati potrebbero avere un ruolo importante. Sono tra le poche istituzioni che ancora hanno la capacità di portare i propri iscritti su ragionamenti complessi e problemi di prospettiva.

Piuttosto che giocare sempre di rimessa, le organizzazioni dei lavoratori potrebbero riscoprire il gusto dell’attacco, promuovendo un ampio dibattito per una alternativa alla cultura del profitto, dell’individuo, del consumo, del privato e delle privatizzazioni nella quale siamo tutti immersi.

Una strada che al momento pare abbondantemente intentata, nonostante dispongano di attrezzate riviste, scuole e centri studi. Ed è un peccato, perché lungo un tale cammino potrebbero incontrare nuovi amici ed alleati, per costruire insieme un intreccio di obiettivi utili all’insieme della società.