La cultura ai privati? Non chiamatelo servizio pubblico

Da tempo si discute sul ruolo dei privati nella cultura. Lo Stato, si dice, ha sempre meno soldi da investire su certe faccende. E lo stesso vale per gli enti locali. Dunque ben vengano le risorse private. Con il valido aiuto di qualche moderno Mecenate, potremo continuare a fare musica e teatro, allestire biblioteche, eccetera. E poi, si sostiene, questo mette in moto un circuito di virtuosa competizione tra pubblico e privato che finisce per fare il bene dei cittadini.

Si può essere o meno d’accordo con questa impostazione. Molti la accettano nei fatti, come “segno dei tempi”. La continua cessione di sovranità degli Stati all’Europa delle banche, in fondo, implica più o meno velatamente concessioni anche su altri fronti, cultura compresa. E poi, un certo buon senso fa pur sempre dire che è meglio mettere l’apparato culturale in mano ai privati che non averlo affatto. Purché – si sottolinea – i privati facciano servizio pubblico.

Su quest’ultimo punto vale la pena soffermare l’attenzione. Cosa sia un “servizio pubblico” infatti, viene forse dato troppo per scontato. In un contesto democratico, si può dire corrisponda a spazi o funzioni capaci di accogliere, riconoscere e dare voce a qualunque orientamento. In fondo la democrazia è una procedura. Interpreta i saperi, le opinioni e gli atteggiamenti solo in senso quantitativo, a maggioranza. Di conseguenza è sempre aperta al rovesciamento dei rapporti di forza. Proprio per questo, però, – in linea di principio – il “pubblico” salvaguarda e offre riparo anche al pensiero più critico o meno allineato.

Si può dire lo stesso dei privati? Chi oggi dispone delle risorse e degli strumenti che rendono possibile la produzione culturale, sarà disposto ad accettare e farsi carico anche di atteggiamenti che mettono in discussione la sua stessa posizione? O piuttosto non preferirà ospitare e produrre una cultura che promuova, confermi e agevoli la sua egemonia sullo spazio pubblico?

L’apertura di determinate opportunità culturali da parte dei privati viene solitamente presentata come un mettersi al servizio dei bisogni (intellettuali, artistici, musicali…) della comunità. Mantenendo il controllo su ciò che mette a disposizione, però, rimane aperta la possibilità che il privato finisca a tirare acqua al proprio mulino, facendo leva sui bisogni che avrebbe dovuto soddisfare.

Gli sforzi dei privati, in quanto tali, non sono da ostacolare o guardare con sospetto, anzi. La loro opera è certamente meritoria e va a vantaggio di molti. Ma se davvero si vuol disporre un servizio pubblico, l’unica strada è affidare alla collettività ciò che si intende offrire.

Lo sappiamo che in mano al pubblico tante cose sono andate a scatafascio, e non è certo tempo di un rigurgito statalista. Ma solo così, sia pure attraverso lo strumento imperfetto della democrazia rappresentativa, si possono avere strumenti potenzialmente liberi, capaci di dar vita a qualunque cultura.