Se la risposta è positiva, allora vale davvero la pena impegnarsi a fondo per spazzare via i veti e le preclusioni ideologiche. Buttarla in politica è una tentazione che può costare cara. Il rischio di paralizzare i processi riformatori. La prospettiva unitaria dell’economia sociale di mercato.
Il vero punto è il lavoro. E dunque, nell’agenda del governo, che pure ha messo in cantiere contemporaneamente tante riforme, il cosiddetto jobs act è il cuore. Delle tante, forse troppe, in agenda, l’emergenza lavoro (per dirla in italiano) è la questione fondamentale. Perché investe le persone, le famiglie, le prospettive concrete della gente in carne ed ossa.
Siamo ai minimi storici dal secondo dopoguerra, ci ricordano impietose le statistiche. Allora bisogna agire e forse siamo già in ritardo. Siamo in ritardo anche perché il tema divide, o, forse, più esattamente, fa emergere divisioni in larga misura nuove, che tagliano partiti e schieramenti. Ma offre anche la possibilità di costruire nuove forme di consenso, ampio e trasversale.
Naturalmente buttarla in politica può essere una tentazione. Ovvero giocare, anche su questo tema, la partita degli schieramenti, o delle vecchie ideologie del secolo scorso, tanto più che comincia a serpeggiare l’idea che l’attuale governo possa non essere l’”ultima spiaggia” per un sistema politico, come quello italiano, sottosopra. In realtà per l’emergenza disoccupazione siamo davvero all’ultimo appello. E per affrontarla, in questa crisi lunga e cattiva che ha rapidamente falsificato anche tante ricette neo-liberiste, serve essere lungimiranti.
Così nessuno si può permettere di fare valere riflessi antichi di schieramento o rendite di posizione. Anche perché la battaglia sull’articolo 18, che oggi è al centro della scena mediatica, sembra fatta apposta per creare alibi. Alibi a chi ripete vecchi slogan, alibi a chi si ostina a considerare il lavoro una semplice merce.
Superare privilegi e rigidità può ampliare e migliorare le tutele, rendendo così il sistema più efficiente e inclusivo. Oltre che restituire speranza a quei giovani che oggi sanno di non potere aspirare al benessere di padri e nonni, generando così una depressione sociale dai costi gravissimi.
In fondo questa è la vera sfida per una Repubblica “fondata sul lavoro” e per il “diritto al lavoro” che addirittura è affermato nientemeno che nella costituzione conciliare “Gaudium et spes”. Diritto al lavoro non significa assistenzialismo insostenibile, salario per tutti “gratis”, ma tutela e promozione della dignità dei cittadini lavoratori, prima di tutto proprio attraverso la libertà e la capacità d’impresa, favorita da una politica responsabile e da un’amministrazione efficiente. Promuovendo le condizioni per cui il lavoro si possa creare e nello stesso tempo valorizzando tutte le realtà di integrazione sociale, dall’impresa alle organizzazioni sindacali e rappresentative. C’è qui il nesso che collega il lavoro con una nozione di bene comune non astratta, ma concretamente legata alle persone in carne ed ossa e alle formazioni sociali. E così capace di produrre benessere e ricchezza. Insomma, l’economia sociale di mercato, ovvero il modello europeo, da riprendere, ripulire e rilanciare. Una prospettiva su cui ritrovarci oltre gli schieramenti e procedere spediti.