Il vescovo: «I poveri sono un allarme, non tanto sociale quanto etico»

In un breve ragionamento implicitamente attraversato dalle intuizioni della Laudato si’ di Papa Francesco, mons. Pompili propone una lettura alla luce della fede del crescente divario tra ricchi e poveri. Un fenomeno che ci deve interrogare tutti, perché investe il tema delle migrazioni, dell’ambiente e del clima

Un momento di riflessione su alcuni dei temi più scottanti dell’attualità socio-economica. È quello che il vescovo Domenico si è concesso rispondendo alle domande di Luca Giarrusso, al quale ha rilasciato un’intervista che è possibile vedere integralmente su Frontiera WebTv.

In particolare, mons. Pompili si è intrattenuto qualche istante sulla delicata relazione tra il problema della povertà e il fenomeno dell’avidità. «Mi piace – ha dichiarato il presule – la contrapposizione tra povertà e avidità e non tanto fra povertà e ricchezza. Il vero problema non è la ricchezza, che, quando è ben distribuita, è una benedizione, ma quando la ricchezza diventa avidità e produce la povertà».

A tale dinamica è in fondo da collegare pure «la scomparsa del ceto medio, cui spesso si fa riferimento»: essa ci dice infatti che, se da un lato «la ricchezza in termini assoluti è cresciuta», dall’altro «non è stata redistribuita in modo equo e questo, che sembrava un problema soltanto dei paesi latino-americani, in realtà ha a che fare anche con l’Italia. Si tocca con mano anche da noi la discrepanza tra persone che hanno, diciamo così, l’imbarazzo di spendere e quelle che invece hanno il problema di che cosa spendere». Pur non ritenendosi in grado di proporre soluzioni, Pompili non rinuncia a mettere in guardia contro l’avidità, che è «il demone da cui guardarsi, questa sorta di “paperondepaperonite” che finisce per trasformare il denaro, da mezzo, in un fine», in qualcosa con cui instaurare un rapporto di tipo compulsivo. L’augurio del vescovo è che «figure come santa Filippa, che hanno preso le distanze dall’avidità pur essendo di famiglia benestante, tornino a ispirare i comportamenti di alcuni, spesso di molti fra di noi, e che questo possa favorire una migliore qualità della vita su scala più ampia».

Nella prospettiva di don Domenico, ovviamente, evocare Filippa non può che implicare un richiamo altrettanto forte a Francesco d’Assisi: «Penso che siamo veramente fortunati ad avere la custodia di un territorio nel quale queste figure, quella di Francesco e quella di Filippa, da cui ci separano ben otto secoli, hanno introdotto nel mondo un’altra visione delle cose».

Quindi il vescovo volge lo sguardo anche al nodo dell’ambiente: «Si badi, non è questione di buon cuore: è questione di intelligenza della realtà, perché, quando l’avidità prende il sopravvento, anche l’ambiente viene degradato, ridotto a una cava di pietra da cui estrarre il massimo possibile di utile. L’avidità è l’esasperazione del concetto di “utile”, che, quando perde di vista anche la condivisione, in qualche modo diventa un boomerang che si ritorce contro la stessa società. Quindi mi auguro che Francesco anche qui torni a ispirare tanti, proprio perché abbiamo bisogno di un ambiente giusto e, per essere giusto, sostenibile».

Sul finire dell’intervista emerge anche la sfida pastorale che l’interazione fra povertà e avidità pone a don Domenico nelle sue vesti di vescovo di Rieti.

Qual è il rapporto che i poveri, in questo momento di disperazione, intrattengono con la fede? E che cosa si aspettano dalla Chiesa?

«I poveri sono un allarme non tanto sociale quanto etico, e ci dicono che qualcosa non funziona».

Proprio alla luce della fede i poveri si segnalano come «i primi interlocutori della proposta evangelica. Gesù ci ha suggerito di guardare alle cose dal basso più che dall’alto». Ne deriva, nelle parole del vescovo, una rivendicazione decisa del ruolo che la fede può e deve giocare nella soluzione dei problemi sociali: «È solo grazie alla fede che si riesce a rispondere a questioni drammatiche basandosi non semplicemente sulla ragionevolezza, ma su un istinto ancora più radicato, che è quello della cura e della prossimità». Senza un simile «istinto di cura per tutti» è impossibile affrontare adeguatamente problematiche complesse quali, per esempio, l’immigrazione, un fenomeno niente affatto residuale che ci costringe a rivedere le nostre facili certezze, giacché «questa che può sembrare una crisi potrebbe perfino rivelarsi un’occasione». Lo suggerisce il dato significativo del trend demografico del nostro paese, «che è in picchiata e sarebbe ancora più in picchiata se non ci fossero gli immigrati».