Il popolo dell’abisso. La riscoperta di una singolare opera di Jack London

“Anche nei casi migliori, la vita di città è innaturale per l’essere umano; ma la vita di Londra è così profondamente innaturale che il lavoratore o la lavoratrice media non riescono a sopportarla”.

Sono passati cento anni dalla morte di Jack London (era nato a san Francisco nel 1876, anche se il cognome gli deriva dal quello dell’uomo che la madre sposò in seconde nozze), uno dei più prolifici scrittori che mai la letteratura abbia conosciuto: ben 49 volumi, alcuni dei quali conobbero una rilevante fortuna quando London (in realtà si chiamava John Griffith Chaney London) era ancora in vita, e continuarono ad averla anche dopo: si pensi a “Il richiamo della foresta” (1903), “Zanna Bianca” (1906) e quello che forse è il suo capolavoro, “Martin Eden”, uscito nel 1909. Scrittore d’avventura e per ragazzi, apparentemente. Ma che significa questa etichetta? Per lui significava rifiuto genetico (il vero padre era probabilmente un astrologo che girava le fiere) della vita borghese, intuizione che la vera vita significa ritorno alla grande madre, rischio, solitudine. La sua morte, a soli 40 anni, è sembrata a molti la conferma di questa concezione dell’esistenza come vitalità estrema.

London si inserisce sulla stessa strada di Thoreau, di Emerson, di Whitman, vale a dire della riscoperta dell’America selvaggia, della madre naturale e incorrotta, sola guida per una umanità tesa altrimenti al vizio e alla dimenticanza di sé.

Certamente in lui vi erano letture forti, come quella di Darwin e di Nietzsche, certamente fu un pensatore discontinuo e contraddittorio, ma almeno pensava in proprio, non corteggiando nessun tic della borghesia occidentale e pagando sempre di persona le sue scelte. La fisicità è uno dei suoi tratti fondamentali, una fisicità che non aveva nulla del superuomo, ma molto dell’assetato di verità e di comunione con la natura. Non solo natura, però. Come abbiamo visto all’inizio, si scagliò contro la città tentacolare, vista come una trappola per topi-uomini. Il London di un’opera oggi misconosciuta, scritta nel 1903, a metà tra l’inchiesta e il racconto: “Il popolo dell’abisso” (altre traduzioni, ne abbiamo di Mondadori e di Robin, tra le altre, recitano “degli abissi”).
Anche qui lo scrittore non smentisce il suo coraggio: si veste da povero, affitta una squallida stanza negli infimi sobborghi dell’East London e si avventura tra gli ultimi. Anche questa era una frontiera da varcare. E’ così che l’americano vive giorni pericolosi da povero, ascolta i racconti degli emarginati fatti fuori da un’Inghilterra che, come aveva notato Dickens (uno dei punti di riferimento), si fa bella sulla sofferenza di molti.

Fa venire i brividi scoprire che nel 1903 Londra era già inquinata, e di brutto: “Non meno di sei tonnellate di materia solida, costituite da fuliggine e idrocarburi catramosi, si depositano ogni settimana su ciascun quarto di miglio quadrato di Londra. Questo equivale a ventiquattro tonnellate per miglio quadrato a settimana, ovvero 1.248 tonnellate all’anno”.

London scopre che l’aria è satura di acido solforico, che gli “abitanti dell’abisso” sono votati a malattia e a morte precoce, senza nessuna assistenza, e che i poveri mangiano cibi immondi dopo file spaventose in ospizi dove poi devono lavorare per “sdebitarsi”; nell’East London nessuno può dormire di notte sulle panchine pubbliche, perché i poliziotti vengono subito, con una solerzia che ha del sadismo, a svegliarti.

Jack smentisce il suo sbandierato darwinismo sociale, perché è uno degli autori che hanno sentito più misericordia verso gli emarginati, come questa strana opera dimostra.

Leggere oggi questo libro significa capire molte cose: ad esempio che cosa era, ed è purtroppo, oggi, la città: tutto fuorchè il luogo per l’uomo e per la sua felicità, e soprattutto capire la profonda spiritualità di uno scrittore che denunciava con una carica spesso vicina a quella evangelica la persecuzione contro la povera gente, già dall’iniziale citazione da James Russel Lowell; “Allora Cristo trovò un artigiano,/ un uomo rozzo, macilento e storpio,/ e una ragazza senza madre dalle dita esili/ schiacciate dal bisogno e dal peccato./ Pose queste persone in mezzo a loro (i benpensanti, ndr) / e mentre questi si tiravano indietro/per non essere contaminati, ‘Ecco’ disse/ ’le immagini di me che avete creato’”.